Pechino, domenica 24 agosto, ore 21,30 (le 15,30 italiane): si spegne il fuoco olimpico e cala il sipario sui giochi della 29^ Olimpiade. Sedici giorni durante i quali atleti di tutto il mondo si sono affrontati per la conquista di una medaglia, per acquisire notorietà, per mettersi alla prova, anche solo per partecipare (la maggior parte), secondo il più puro spirito olimpico, quello voluto dal barone De Coubertin. La televisione ci ha restituito le immagini dei loro trionfi e delle loro sconfitte, la gioia e l’emozione per risultati al limite dell’umano (come quelli dell’americano Phelps
o del giamaicano Bolt), ma anche il dramma e la disperazione per sconfitte reputate ingiuste o, comunque, non preventivate. Il bilancio italiano è stato lusinghiero, ma non esaltante: come spesso accade le delusioni più grandi sono giunte da quegli atleti che (a torto, evidentemente) si ritenevano più da medaglia. Ci siamo comunque emozionati dinanzi alle urla della Vezzali, alle lagrime della Pellegrini, alle smorfie di Schwarzer (dovute al dolore e alla fatica, dopo 50 Km di marcia), alla calma olimpica di Cammarelle, che cantava a squarciagola l’inno di Mameli: “dov’è la vittoria le porga la chioma che schiava di Roma Iddio la creò”, mostrando di comprenderne appieno il significato, a differenza di quel ministro leghista, digiuno di storia patria, che agli stessi versi, ha mostrato il dito medio alzato perché - testuale - “il nord non sarà mai schiavo di Roma”. Miserie che non meritano commento, come non merita commento l’affermazione del senatore Borghezio, per il quale la vittoria della Pellegrini avrebbe dimostrato la superiorità etnica della razza padana (sic!). Ma le immagini dei trionfi olimpici e la perfezione della macchina organizzativa messa in mostra dalla Cina, non hanno, tuttavia, eliminato il “freddo” (non meteorologico) di questa estate che volge al termine: la repressione di ogni forma di dissenso e la spietata reazione cinese contro ogni conato di libertà del popolo tibetano; le numerose vittime civili dei bombardamenti alleati in Afghanistan, infine le (poche) drammatiche immagini della guerra russo-georgiana ci restituiscono un mondo dove, ancora una volta, l’uomo appare “homini lupus”. Quella che più preoccupa è, però, l’escalation della tensione nei rapporti fra Russia e Stati Uniti e i toni da “guerra fredda” che ritenevamo archiviati con la caduta del muro di Berlino. Non è così, evidentemente, e le pretese russe su alcune regioni georgiane, strategicamente importanti perché vi passano gli oleodotti che portano in occidente il petrolio e il gas russi, non sembrano portare nulla di buono. “L’umanità metta fine alla guerra, o la guerra metterà fine all’umanità”, ammoniva quasi cinquanta anni fa il Presidente John Kennedy ed il monito è valido ancor più oggi che nuove potenze, anche nucleari, si affacciano sullo scacchiere internazionale ed aspirano ad un ruolo di leader, forti di un’economia in piena espansione (è il caso della Cina) o della presenza sul loro territorio di grandi giacimenti di petrolio (l’Iran). Ma non sono solo gli scenari internazionali a preoccupare. In Italia (che sul piano internazionale conta come il “due di briscola”) preoccupano soprattutto la crisi economica, sempre più grave, e le idee di riforma dello Stato che albergano nella mente del nostro Legislatore. Che la crisi economica sia grave, se ne sono accorti un po’ tutti, anche il Ministro Tremonti, che, pur escludendo rischi di recessione, ha individuato, come presunta responsabile di tutto, la globalizzazione. Ancora più pessimisti paiono, però, alcuni grandi economisti come il Governatore della Banca d’Italia, Draghi, o quello della Federal Riserve americana, Bernanke, per i quali il rischio recessione - figlio di un’economia globale da cui non si può comunque prescindere - è assolutamente concreto, se non addirittura in atto. In questo contesto, cosa deve dire, o pensare, il precario italiano che riesce a racimolare (quando ci riesce), sì e no, 1.000 euro al mese? Quali possono essere le sue prospettive future? A fronte di ciò il nostro Premier, che non ha i problemi economici degli operai o dei precari, forte del successo (?) di Napoli, sprizza ottimismo e ritiene che altre siano le vere priorità, prime fra tutte la riforma della giustizia ed il federalismo (ma, alla luce dell’esperienza di questi ultimi anni, è lecito pensare che esse, più che alla modernizzazione del Paese, mirino a “ regolare i conti” con vecchi nemici, si tratti della Magistratura o del Mezzogiorno d’Italia, considerato dalla Lega come una specie di vampiro che succhia il sangue del Nord). Per fare tali riforme, tuttavia, è necessario modificare profondamente la Costituzione, operazione piuttosto difficile senza il concorso dell’opposizione (anche perché, senza maggioranza qualificata, le eventuali modifiche debbono passare attraverso un referendum popolare, i cui esiti, come già nella penultima legislatura, non sono certo scontati). A parole tutti dicono di volere il dialogo, nei fatti ci si comporta come se la controparte non esistesse. Sarà, comunque, la volta buona per vedere se c’è ancora, in Italia, un’opposizione degna di questo nome (come invocato dall’ex-Presidente Scalfaro). L’autunno, a differenza dell’estate “fredda”, si annuncia, invece, piuttosto “caldo”.
Pag. 2 Rubrica a cura di don Salvatore Barone IL SORRISO, LINGUAGGIO UNIVERSALE
La parola non è l’unico codice comunicativo. Ve ne sono altri, talora più efficaci dello stesso linguaggio verbale. Tra questi il più compreso e apprezzato è il sorriso. Il sorriso è un linguaggio universale che non ha bisogno di interpreti, di traduttori. Pensate. In America fischiare è segno di approvazione. Da noi, di disapprovazione. In Cina sputare davanti ad una persona non è ritenuto offensivo, anzi, altamente rispettoso. Da noi, è da maleducati. In Giappone reclinare il capo e dondolarlo lentamente con gli occhi chiusi mentre si ascolta un discorso, è segno di concentrazione. Da noi è segno di noia. In Italia ruotare un dito contro la guanciasignifica, normalmente: “É buono”, oppure: “É bello”. In Germania, con un gesto del genere potreste farvi dei nemici; infatti indica: “É matto!”. Per mostrare la propria ammirazione nei confronti di una ragazza, un arabo si accarezza la barba, un brasiliano fa finta di costruirsi un cannocchiale con le mani, un greco fa finta di allungarsi il volto, perché nell’antichità il volto oblungo era considerato molto carino. Insomma paese che vai, gesti che trovi. C’è un solo gesto che è capito dappertutto, dalle tribù primitive ai grattacieli di Tokyo. Un gesto che può aiutare molto a risolvere, in ogni angolo del pianeta, situazioni difficili, a dissipare le tensioni e a trovarsi subito d’accordo.
Il gesto universale e miracoloso è il sorriso!
Il sorriso è il primo diritto del figlio.
Non è stato lui a chiedere di nascere, dunque non è giusto che incontri un mondo inospitale, visi torvi, facce di traverso. Vivere con facce oscure è la peggiore delle torture. Tutti i competenti concordano nel dire che, subito dopo il gusto del latte, il bambino deve provare il gusto della vita. “La gioia, per il bambino, è importante come il pane e la conoscenza, se non di più”. I piccoli sentono la gioia come la cosa più naturale, la cosa più loro. È incredibile la valenza pedagogica di un sorriso. La gioia è educativa per natura sua: ci migliora sempre, mentre la tristezza ci peggiora sempre.
Il sorriso cambia l’aria che ci circonda, crea un’atmosfera lieve, dolce, calda, serena. In una parola: buon riso fa paradiso! BADEN POWELL, il fondatore dello scoutismo, notava che “Un sorriso fa fare il doppio di strada di un brontolìo”, e aggiungeva: “Fino a qualche tempo fa ho creduto nella verità del detto “un bastone e un sorriso possono far superare qualsiasi difficoltà”, ma poi la mia ulteriore esperienza mi ha rivelato che, in genere, si può lasciare a casa il bastone”. Ridere è da intelligenti.
Ridi e il mondo riderà con te. Piangi e ti bagnerai soltanto! Ridere è da buoni. Nella sua limpida saggezza Madre Teresa di Calcutta affermava: “Non capiremo mai abbastanza quanto bene è capace di fare un semplice sorriso”. Con Madre Teresa concorda Roberto Benigni, il quale in un’intervista ha confidato: “Vorrei tanto essere un clown, perché è l’esperienza più alta di benefattore”! Una parabola, tratta dal Talmud racconta. Rabbi Baruk si recava spesso nella piazza del mercato. Là un giorno gli apparve il profeta Elia e Baruk gli chiese: “Fra questa gente c’è almeno uno che avrà parte nel mondo futuro?”. Elia rispose: “Nessuno!” Più tardi in piazza si presentarono due uomini ed Elia, vedendoli, disse a Baruk: “Ecco, costoro avranno parte nel mondo futuro”. Baruk incuriosito chiese loro: “Qual è la vostra professione?” Risposero: “Siamo buffoni. Quando vediamo qualcuno triste lo rassereniamo, quando vediamo due litigare, cerchiamo di farli riconciliare”. Ridere è da esperti. Il sorriso è la distanza più breve tra due persone! In un mondo così aggressivo è indispensabile distendere; tra gente incupita ed egoista bisogna far cadere il raggio di un sorriso; in una società litigiosa e insoddisfatta è bello aprire un piccolo squarcio di sereno; in un tempo in cui si misura tutto sulla produttività e sulla resa economica, si deve lasciare spazio al gratuito e al riposo. L’uomo, e ancor più il sacerdote, che pratica il sorriso arriva là ove anche le parole più pensate e più studiate non arrivano: arriva ad abbracciare un’anima! Illuminante questo proverbio orientale: “Il sorriso è una luce che s’affaccia sulla finestra del volto e annuncia che il cuore è in casa”.
Quando si dice il destino! A “don Otello”, di antica e nobile schiatta, il FATO concesse la pia missione di chierichetto, che lui, indossato il merlato candido camice, accettò di buon grado, e con amore e devozione se la “tirò” avanti per tutta la vita. Fu chierichetto “in servizio permanente effettivo” e svolse il suo mandato sia d’infante che da giovinetto, sia d’adulto che d’anziano con grande puntualità, consapevolezza, abnegazione. Colonna portante di tutti i riti sacri: accenditore e spegnitore di ceri, vigile attento della “pila dell’acqua santa”, onesto e solerte accattino, abile suonatore di campane a funi, maestro fiatatore di turiboli. Al celebrante dosava l’acqua con un po’ di vino, e quando il prete “alzava in cielo” il calice, suonava dolce il campanello e con tre colpi rimbombanti al petto mandava a quel paese il diavolo e tutto il suo contorno (entourage). Quando si dice l’uomo!... Punto da inopportuna vaghezza, volle, l’uomo, verificare la veridicità di quell’antico motto che affibbia la croce più grossa al monaco più ingenuo e siccome don Otello ingenuo (ma anche beato) lo era per davvero, senza pensarci su più di tanto, prese la croce più grossa e gliela buttò
addosso, gratificandolo del titolo di “CAPOCRUCIFERO” di tutte le congreghe locali. Otello, però, oltre che ingenuo era, purtroppo, afflitto da una piccola dose di follia, che lo rendeva imprevedibile nella vita di relazione. Agli stimoli esterni poteva talvolta rispondere, reagendo in maniera imprevista ed incontrollata. È quanto accadde quel caldo pomeriggio di metà luglio… Quando si dice la follia!... …Apre il mesto corteo funebre la grande croce di Otello, alla quale fanno ala i “fratelli” dal mantello celeste che recitano
Disegno del Prof. Nello Martina incomprensibili giaculatorie alle quali, quando ne ha voglia, don Otello risponde “AMEN”. Segue il feretro di colui che ormai non c’è più una “ridda” di parenti disperati, con la barba nera e incolta, con lunghi capelli arruffati al vento, che cercano di comprimere il loro immenso dolore in pesanti cappotti col bavero alzato ed in grandi scialli di lana caprina fatti a mano, a suo tempo, dalle mani della mamma di mamma loro... Chiude il corteo una folla di amici, conoscenti e curiosi, che “afflitta e sconsolata”, partecipa al grande dolore dei familiari dello scomparso, raccontandosi a voce più o meno bassa “casi”
propri e “casi” altrui, con un pissi-pissi contagioso e coinvolgente che, quale coltre di velluto scuro, sembra avvolgere tutto: uomini e cose, condolenti e partecipanti, Otello e “fratelli” dal celeste mantello. …Come fulmine a ciel sereno, una voce maligna e misteriosa grida: “OTELLO! CORNACCHIA! PROFICO!...POH, POH!…”. È un attimo ed è anche la metamorfosi del nostro Otello: da “CROCIFERO” si trasforma in “CROCIATO” e… croce in resta corre alla disperata ricerca del “FETENTE SALADINO”!
Venerdì 18 luglio, Mancaversa, giornata molto calda, mare calmo. Un uomo sta facendo il bagno, in un luogo un po’ isolato, quando, forse a causa di un malore, rischia di annegare. Una donna sugli scogli lo vede annaspare ed allerta i suoi due nipotini, un ragazzino ed una ragazzina di 13 e 11 anni. Costoro, senza pensarci su, si buttano in acqua e grazie ad una tavoletta danuoto, lo traggono a riva. È in grande difficoltà, perché, nonostante si sia trattato di attimi, ha bevuto molta acqua. Viene adagiato su un fianco ed aiutato a rimettere. Qualcuno chiama il 118 e nel breve volgere di pochi minuti è trasportato all’ospedale di Gallipoli. La sua situazione è subito critica, ma grazie al prodigarsi di medici e infermieri, l’uomo si salva e dopo pochi giorni è restituito alla sua famiglia e ai suoi affetti. Quell’uomo è mio padre e deve la sua vita al coraggio e alla prontezza di due ragazzini e di alcuni bagnanti ed alla professionalità dei sanitari dell’ospedale di Gallipoli, cui va il mio pubblico “Grazie”. Sabato 19 luglio, spiaggia di Torregaveta, litorale napoletano. Giornata afosa, mare
I cadaveri delle due sorelline Rom. leggermente mosso. Due sorelline Rom giungono in spiaggia per vendere le loro povere chincaglierie, calamite colorate da attaccare al frigorifero. Ad un certo punto, per il molto caldo, una di esse entra in acqua. Non sa nuotare e, in un attimo, è preda delle onde o del fondale infido. La sorellina se ne accorge e, senza pensarci su, si getta in acqua, nel tentativo di soccorrerla. Anche lei, però, non sa nuotare ed è vinta dalle
onde. Dopo pochi minuti il mare restituirà i corpi di quelle piccole, povere vittime. Resteranno ben tre ore sul litorale, a mala penacoperte da un telo da spiaggia. È normale, in casi come questo, attendersi nei presenti angoscia, dolore, sgomento, vedere persone che non sanno darsi pace: in fondo si sono tragicamente consumate due giovanissime esistenze. Invece intorno a quei poveri corpi regna, sovrana, l’indifferenza: chi si spalma di crema, chi continua a prendere il sole, chi smanetta su un cellulare. “Girarsi dall’altra parte può essere più devastante degli stessi eventi che accadono”, ha tuonato il Cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe e il giornale inglese The independent ha pubblicato in prima pagina quelle foto con la significativa didascalia: “L’immagine che fa vergognare l’Italia”. Ma siamo sicuri che gli italiani, oggi, si vergognano? Qualche dubbio è legittimo: in fondo non si trattava che di Rom, “figlie di un Dio minore”, a ben vedere non ci sarà neppure il fastidio di prenderne le impronte digitali!
Cosa lega fra loro tre personaggi così diversi e distanti come Martin Luther King, Robert Kennedy e Jan Palach? Qualcuno, di primo acchito, potrebbe rispondere: la morte, avvenuta per tutti e tre nel medesimo arco di tempo, circa quarant’anni fa, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro (per King il 3 aprile 1968, per Kennedy il 6 giugno, per Palach il 16 gennaio 1969). Ma la risposta, per quanto corretta, non sarebbe esaustiva, perché altri - e ben più profondi - sono i legami che avvincono queste tre importanti figure del secolo scorso e ce le restituiscono vivide, ancora attuali, quasi non fosse trascorso da allora così tanto tempo. Sono i legami della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia sociale, gli ideali per i quali i tre spesero - e persero - la loro esistenza, vittime della bieca violenza che consuma speranze e vite, contro cui, in contesti certamente diversi, strenuamente si batterono.
M. L. King era un pastore battista, che con le armi della non violenza combatteva contro le discriminazioni razziali - all’epoca molto in auge negli Stati Uniti - delle quali era fatta oggetto la sua gente. Ai colored era, infatti, proibito sedere sui bus e, se seduti, avevano l’obbligo di cedere il posto ai bianchi; i ragazzi negri non potevano frequentare le stesse scuole dei bianchi e, soprattutto negli Stati del sud (Georgia, Luisiana, Alabama, Tennessee), era assai probabile che qualche negro finisse appeso ad un albero dagli estremisti del Ku Klux Klan, per colpe anche veniali o per aver reagito contro le continue e gravi discriminazioni perpetrate ai danni degli afro-americani. Per questa sua battaglia, King aveva ottenuto nel 1966 il premio Nobel per la pace, ma, nonostante ciò, nonostante fosse una personalità conosciuta e stimata in tutto il mondo, era continuamente esposto al rischio di esser ucciso. Il 3 aprile 1968, nel suo ultimo discorso tenuto a Memphis, nel Tennessee, egli pronunciò parole che si rivelarono profetiche sulla sua tragica fine. Disse: «Abbiamo giorni difficili davanti a noi, ma non me ne preoccupo. Sono stato in cima alla Montagna… Come tutti vorrei vivere una lunga vita, la longevità ha la sua importanza, ma non mi preoccupo adesso, voglio solo fare la volontà di Dio. Lui mi ha permesso di salire sulla Montagna e ho guardato e ho visto la Terra Promessa. Forse non ci arriverò con voi, ma voglio che sappiate stanotte che noi, come popolo, arriveremo alla Terra Promessa! Sono felice stasera, nessuno mi fa paura, i miei occhi hanno visto la gloria della venuta del Signore!». Poche ore dopo, nel pomeriggio del 4 Aprile, un colpo di fucile (esploso, pare, da un fanatico razzista, James Earl Ray) mise fine ai suoi giorni. L’11 Aprile, anche a causa dell’emozione e dell’indignazione che quella morte aveva suscitato in tutto il Paese, il Presidente Johnson sottoscrisse l’atto che sancì la fine della discriminazione razziale nella scuole americane.
Robert Kennedy, fratello del Presidente John, assassinato a Dallas nel 1963, era Senatore dello Stato di New York e candidato alle primarie per le elezioni presidenziali, che avrebbe facilmente vinto se la mano omicida di Shiran Shiran, un fanatico palestinese, non lo avesse fermato, la notte del 4 giugno 1968. Al tempo della presidenza del fratello Jack (il nomignolo con cui era chiamato John Kennedy), da Ministro della Giustizia si era reso promotore di una forte campagna contro tutte le mafie americane, che, probabilmente, insieme ai convergenti interessi di taluni “poteri forti” che si vedevano minacciati dalla coraggiosa politica innovativa dei Kennedy, costò la vita al Presidente americano. Il 4 giugno 1968, dopo aver vinto gran parte delle primarie del Partito Democratico, Bob Kennedy tiene un importante discorso all’Hotel Ambassador di Los Angeles. Anche le primarie della California segnano il suo successo e le speranze di un ritorno alla politica della “Nuova Frontiera” sono sempre più concrete. Kennedy rappresenta l’ala liberal del partito e costituisce per i neri dei ghetti, per gli emarginati, per le minoranze ispano-americane la speranza di una maggiore eguaglianza e giustizia sociale ma, soprattutto, della fine della guerra nel Viet- Nam. Da sempre egli si batte contro la guerra e la violenza che - sostiene - sono in ogni caso prive di qualsivoglia giustificazione. Questi i passaggi più significativi del suo ultimo discorso: «Mi sono riservato questa occasione come unico impegno di oggi per parlare gravemente con voi dell’insensata minaccia della violenza in America, che macchia ancora la nostra nazione e la vita di tutti noi. Non è la preoccupazione di una sola razza. Le vittime della violenza sono neri e bianchi, ricchi e poveri, giovani e vecchi, famosi e sconosciuti… Nessuno, in qualsiasi posto viva, e qualsiasi cosa faccia, può essere certo di chi sarà il prossimo a soffrire per un insensato atto di sangue.
Eppure, la violenza continua, continua, continua in questo nostro Paese. Perché? Che cosa ha mai ottenuto la violenza? Che cosa ha mai creato? Quando un americano toglie la vita ad un altro americano, sia se viene fatto in nome della legge, o contro la legge, da un uomo o da una banda, a sangue freddo o in preda al furore, in un attacco di violenza o in risposta alla violenza, quando strappiamo il tessuto della vita, che l’altro ha faticosamente creato per sé e per i propri figli, quando lo facciamo, l’intera nazione è degradata… Troppo spesso scusiamo coloro che costruiscono la propria vita sui sogni infranti di altri esseri umani. Una cosa è chiara: la violenza genera violenza, la repressione genera rappresaglia, e soltanto la pulizia di tutta la nostra società potrà estirpare questo male dalla nostra anima… Quando si insegna ad un uomo ad odiare, ad avere paura del proprio fratello, quando si insegna che un uomo ha meno valore a causa del colore della sua pelle, non delle sue idee o della politica che segue, quando si insegna che chi è diverso da te minaccia la tua libertà o il tuo lavoro o la tua casa o la tua famiglia, allora si impara ad affrontare l’altro, non come un compatriota, ma come un nemico… Ricordiamoci che quelli che vivono con noi sono nostri fratelli, che dividono con noi lo stesso breve arco di vita, che cercano, come facciamo noi, soltanto la possibilità di vivere la propria vita con uno scopo e in felicità, conquistandosi la realizzazione e la soddisfazione che possono… Impariamo a guardare chi ci sta intorno, il nostro prossimo, a lavorare con maggiore impegno per ricucire le ferite che ci sono tra noi e per tornare ad essere fratelli e compatrioti nel cuore». Ma Kennedy era anche un uomo solo e
indifeso e Shiran Shiran non ebbe difficoltà ad esplodergli contro i colpi di pistola fatali. “Jack, Jack” furono le sue ultime parole, a ricordare, nell’ultimo attimo di vita, il fratello ucciso a Dallas, cui lo accomunò il medesimo tragico destino.
Jan Palach non era né un leader politico né un intellettuale, era solo uno studente cecoslovacco che, come tanti suoi connazionali, guardava con favore al Segretario del partito comunista del suo Paese, Aleksander Dubcek, protagonista della c.d. “Primavera di Praga” e fautore del “socialismo dal volto umano”, un socialismo, cioè, che riconoscesse i diritti di libertà dei cittadini (come in Europa occidentale, cui Praga si sentiva storicamente legata) ed affrancasse il suo Paese dal pesante giogo sovietico. Una svolta, quella cecoslovacca, che non poteva essere tollerata dall’Unione Sovietica che, come in Ungheria nel 1956, spense nel sangue ogni barlume di libertà. Nella notte fra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati del Patto di Varsavia invasero il Paese e nulla poterono gli inermi cecoslovacchi, armati solo delle proprie
Pag. 5 bandiere. Oltre mille furono i morti. Jan Palach fu l’ultimo. Vinto dalla disperazione, mise in atto un estremo, generoso quanto inutile gesto di protesta: si diede fuoco alla maniera dei bonzi asiatici in Piazza San Venceslao. Era il 16 gennaio 1969. Sono trascorsi quarant’anni da allora, ma ci è sembrato giusto riportare alla memoria queste storie e questi personaggi, perché libertà, eguaglianza, giustizia non possono mai considerarsi beni definitivamente acquisiti, neppure nel mondo occidentale e nella nostra Italia, dove in questi ultimi tempi sembrano purtroppo riaffiorare rigurgiti di autoritarismo e xenofobia che ritenevamo per sempre archiviati. Purtroppo erano solo momentaneamente sopiti ed oggi paiono risvegliarsi, mentre ad addormentarsi è, invece, la ragione; e si sa che “il sonno della ragione genera mostri”!
Riscontro con vero piacere, naturalmente ringraziando tutta la redazione, l’invito rivoltomi a presentare il progetto di solidarietà “IO HO UN SOGNO”. Lo faccio con il piacere e l’entusiasmo di chi crede fermamente in questa iniziativa. “Io ho un sogno”, nel concreto, è un’attività di Fund Rising, una raccolta fondi per la realizzazione di progetti e iniziative di sostegno a persone che versano in stato di bisogno, conparticolare riferimento a bambini ed anziani. È un progetto che si svilupperà con strumenti e mezzi innovativi come il Marketing sociale e il commercio solidale nel tentativo di coinvolgere l’intera città e una comunità, come la nostra, da sempre attenta e sensibile a
“IO HO UN SOGNO”
Il Consiglio Comunale di Taviano, all’unanimità, si è reso promotore di una iniziativa benefica in favore di bambini e anziani bisognosi. Abbiamo chiesto al Suo Presidente, Dante Coronese, di illustrarlo.
tematiche come questa. È un iniziativa che promana dalla Presidenza del Consiglio Comunale della città di Taviano, ma che è stata fatta propria all’unanimità dall’intero Consiglio Comunale. Segno, questo, che anche la politica (quando vuole) sa spogliarsi di colori ed appartenenze per percorrere il cammino della solidarietà che, per essere tale, non ha e non deve avere colori. Occorre dire subito che i fondi raccolti saranno gestiti in maniera del tutto autonoma da un Comitato esecutivo nominato tra i cittadini. Altro aspetto rilevante di quest’iniziativa è l’adesione delle associazioni cittadine che conferiscono all’intero progetto una dimensione sociale molto importante. L’iniziativa origina anche dall’esigenza di risvegliare sotto il profilo dell’impegno sociale e volontario la nostra comunità che, dopo essere stata importante punto di riferimento per le comunità cittadine vicine, attraversa forse una fase di stanca. Un risveglio che significhi ritrovare il gusto e la voglia di partecipare alla vita pubblica riappropriandosi di spazi vitali per la promozione e la crescita umana. “Io ho un sogno” diventa, quindi, anche un’occasione di rilancio del mondo associativo tavianese che, oggettivamente, vive un momentodi crisi e difficoltà. È un progetto che da “occasione” deve diventare “opportunità”. “Io ho un sogno” è un’idea, un progetto, ma anche una sfida. Una sfida contro l’indifferenza, contro i silenzi, contro la dominante cultura
dell’egoismo e del cinismo. “Io ho un sogno” è una prova alla quale tutta la città è chiamata a dare risposte concrete di attenzione, partecipazione e solidarietà nei confronti delle persone più sfortunate. “Io ho un sogno” è una famosissima frase pronunciata in un memorabile discorso del 1963 da Martin Luther King. Egli aveva un grande sogno, quello di una società americana più giusta e democratica senza differenze razziali; una società più liberà dove tutti fossero effettivamente ed autenticamente liberi. Il nostro “sogno” è certamente meno ambizioso, ma altrettanto importante. Qualcuno ha detto che noi non siamo chiamati a “cambiare il mondo”, ma a contribuire per la nostra parte a “cambiare il nostro piccolo angolo di mondo” troppo complicato per essere lieto e troppo poco grande per essere eroico. Chiedo, allora, a “La Voce” di sostenere questa iniziativa così come lo chiedo a tutti i cittadini, convinto come sono che i nostri piccoli sogni, insieme, possono realizzare quelli di persone più sfortunate, perché tutti possano avere ed incarnare speranza nuove. Con affetto
Dante Coronese
L’Associazione Culturale “V. Bachelet”, sensibile come sempre alle problematiche sociali, ha aderito con entusiasmo all’iniziativa, e si rende portavoce del messaggio lanciato dal Presidente Coronese.
Settembre: tempo di scuola, tempo di cambiamento. Il Ministro della Pubblica Istruzione ha deciso di ripristinare nella Scuola il voto in condotta, il maestro unico, la pagella con i voti, gli esami di riparazione… e tant’altro. Nihil sub sole novi…Ma il Nuovo può rappresentare davvero un ritorno all’antico?
La Scuola della mia generazione era una Scuola di altri tempi, apparteneva ad un altro pianeta, e perciò ritengo improponibile qualunque confronto con la Scuola di oggi. La carriera scolastica dei bambini aveva inizio nella Scuola Elementare a sei, sette anni e anche oltre; per i più piccini c’era l’Asilo Infantile tenuto dalle suore, oppure la mescia, o più semplicemente il cortile e la strada, sotto gli occhi vigili della mamma, della nonna, delle sorelle più grandi. La realtà era molto dura. La povertà aveva ancora i piedi scalzi e i panni sdruciti, i geloni alle mani, lo stomaco vuoto. Mentre i Comuni provvedevano ad aiutare le famiglie bisognose con l’ECA (Ente Comunale Assistenza), la Scuola cercava di alleviare le precarie condizioni degli alunni disagiati intervenendo con il Patronato Scolastico, che elargiva aiuti provvidenziali e concreti. A scuola c’era la Refezione: ogni mattina la cuoca scioglieva nell’acqua bollente la farina lattea e, al loro arrivo, i bambini trovavano una ciotola di latte caldo e schiumoso, con una fetta di pane spalmata di crema al cacao, l’antenata della Nutella; a pranzo venivano distribuiti un piatto di minestra fumante, una fetta di formaggio o una porzione di pesce o di carne in scatola, un frutto. Scarpe di tela ricoprivano i piedi nudi; libri, quaderni e penne venivano forniti a quanti ne avevano bisogno. Si cercava, in ogni modo, di garantire a tutti i bambini il diritto inalienabile a dignitose condizioni di vita; di diffondere l’istruzione primaria in un ambiente sociale condizionato da rilevante povertà e diffuso analfabetismo. A quel tempo l’anno scolastico, diviso in trimestri, cominciava il 1° di ottobre, giorno di San Remigio sul calendario, per cui i bimbi che andavano per la prima volta a scuola venivano detti Remigini; dopo tre giorni, il 4 di ottobre, la festa nazionale di San Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia, regalava la prima vacanza. Gli edifici scolastici erano per lo più antichi palazzi adibiti all’uso, oppure imponenti costruzioni quasi tutte a forma di U, con un cortile interno. Le aule erano stanzoni senza riscaldamento; le suppellettili, di legno antico e scuro, comprendevano una grande cattedra che troneggiava su di un’ampia pedana; un’imponente lavagna nera di ardesia; un armadio; banchi biposto forniti di calamai per l’inchiostro e di ripiano per le cartelle, con sedile e schienale rigido incorporati, con piano-scrittoio inclinato e ribaltabile; sui muri erano appesi il crocifisso,
l’alfabetiere, le carte geografiche; sui davanzali delle finestre le maestre coltivavano piante in vaso. Le classi, divise in maschili e femminili, contavano da trenta a quaranta scolari, guidati da un solo insegnante. Uno scolaro meritevole veniva scelto come capoclasse. Nella stessa classe ci potevano essere alunni di età diversa perché l’evasione dall’obbligo scolastico causava frequenze in ritardo, molte ripetenze, abbandoni. La guardia municipale aveva un bel da fare a recarsi nelle case per prelevare i riottosi, i quali non sempre erano per strada a bighellonare, ma molto spesso erano al lavoro nei campi, nelle botteghe, a servizio, al pascolo, in giro a raccogliere letame ... A scuola le maestre indossavano il grembiule nero, gli scolari portavano la divisa: grembiule nero, colletto bianco, fiocco di vari colori, secondo le regole di ciascun Circolo Didattico, il quale comprendeva le scuole di più paesi. Il corredo dello scolaro consisteva in una cartelletta marrone di cartone, che conteneva il libro di lettura e il sussidiario, spesso usati per molti anni da più scolari; due quaderni a righi e due a quadretti, per la bella e la brutta copia: i primi avevano la foderina nera doppia e molte pagine dai margini rossi cucite insieme; gli altri erano quadernetti con gli spilli, avevano meno fogli e una copertina illustrata; sul retro dei quaderni a quadretti c’era sempre la tavola pitagorica, e dietro quelli a righi un breve testo narrativo, storico, scientifico o religioso. I quadretti e i righi, larghi per la prima classe, si rimpicciolivano di anno in anno fino alla quarta perché gli scolari si esercitassero ad avere massima cura della calligrafia; in quinta i righi erano a spaziatura unica.
Le pagine venivano numerate, onde evitare sprechi per uso improprio e scapaccioni per attentato al bilancio familiare. Un astuccio di latta, di stoffa o di legno conteneva una matita, un temperamatite, una gomma, una penna, la carta assorbente e una scorta di pennini perché erano soggetti a spuntarsi, qualche pastello colorato, che veniva usato fino a quando si riduceva ad un mozzicone inutilizzabile. Prima dell’inizio delle lezioni l’insegnante passava tra i banchi per la rivista igienica: a tutti gli alunni, con le mani ben aperte in avanti, venivano controllate le unghie, il collo e le orecchie, il grembiule e il colletto; particolare attenzione veniva data ai capelli, a causa della pediculosi difficile da debellare.
Il profitto degli scolari e la loro condotta, di capitale importanza, erano valutati con i voti dallo 0 al 10, i quali venivano scritti a numero sui quaderni e sul registro, in lettere sulle pagelle. La pagella del I° trimestre veniva consegnata ai genitori prima delle vacanze di Natale, e da essa poteva dipendere la visita della Befana, attesa per tutto l’anno da ogni bambino, anche da chi si aspettava solo qualche confetto. Il SEX (che ovviamente non aveva nulla a che fare col sesso, parola tabù per un’epoca in cui si cantava “si fa, ma non si dice” e i bambini li portava la cicogna o spuntavano sotto i cavoli)
era il voto minimo indispensabile per PASSARE, ovvero essere promossi alla classe successiva. La x del sex, più prosaicamente, sostituiva la i di SEI per impedire a qualche mano ardita di trasformare sulla pagella un sei in sette. Il sex, senza infamia e senza lode, era il voto- frontiera tra l’asineria e la bravura: da cinque a uno ti aspettava al varco la rimandatura o la bocciatura; da sette a nove era assicurata la promozione e l’approvazione generale. Lo zero era l’abisso profondo, la condanna assoluta senza appello; ma la gogna scolastica era lo zero spaccato, in confronto al quale lo zero semplice era persino decoroso. Nell’empireo del sapere sovrastava, invece, il dieci, voto che veniva attribuito raramente e solo a compiti svolti in forma eccellente da alunni senza macchia, sui quaderni e sulla coscienza, di provata bravura e diligenza. Al dieci, eccezionalmente e semel in anno o una tantum, si aggiungeva la lode. Il 10 e lode era la Coppa campioni degli scolari, la consolazione del parentado, la candidatura al sicuro proseguimento negli studi. “È troppo bravo, bisogna fare dei sacrifici e mandarlo a studiare”. A queste parole, di solito, la madre esultava e il padre si rassegnava. Si diceva “mandare agli studi” perché nei piccoli paesi, oltre alle Elementari non c’erano altre scuole e bisognava spostarsi nei grossi centri di provincia o in città per frequentare la Scuola Media e gli Istituti Superiori. Se la sede era vicina al proprio paese, si poteva raggiungere ogni giorno con il treno, con la corriera oppure con la bicicletta; ma se era lontana o mal collegata bisognava andare ad abitarci, in pensione o in collegio. Ecco perché gli studi erano legati a verbi di movimento, i quali metaforicamente indicavano non solo un cammino fisico, ma anche un percorso culturale e di vita. Era chiaro a tutti i ragazzi, infatti, che, se agli studi non si andava bene e alla fine dell’anno non si passava… beh non c’era tempo da perdere né denaro da sprecare. Si finiva, così, nei campi, in cantiere o in bottega, dove c’erano altri ragazzi i quali, pur dotati di capacità e di volontà, non avevano avuto le possibilità finanziarie o, peggio ancora, il consenso paterno per continuare gli studi. In quella scuola gli esami, come nella vita, non finivano mai, (ma erano tempi in cui alle difficoltà si veniva abituati fin da piccoli) e ovviamente si trattava di esami scritti e orali: si dovevano
sostenere esami in terza e in quinta elementare; esami di ammissione alla Scuola Media ed esami di terza media, di quinto ginnasio, di maturità; per tutta la durata degli studi c’erano ogni anno a settembre gli esami di riparazione in quelle materie nelle quali non si era raggiunta la sufficienza. Si poteva essere rimandati fino a quattro materie, dopodiché c’era l’inevitabile bocciatura. Per correggere il comportamento degli studenti erano ammessi i castighi e le punizioni corporali: in ginocchio, faccia al muro, in un angolo dell’aula; bacchettate sulle mani, tirate di orecchie e di capelli (tortura inflitta soprattutto alle code e alle trecce femminili). C’erano alcuni insegnanti che adottavano sistemi correttivi più drastici e pesanti; ma la maggior parte per educare ricorreva ai rimproveri severi, all’esclusione da attività ludiche, all’assegnazione di compiti scritti onerosi e impegnativi. Molto spesso erano gli stessi genitori a richiedere le maniere forti verso i figli e la severità era considerata un merito; gli insegnanti che sapevano essere autorevoli riscuotevano la fiducia delle famiglie ed il rispetto generale. Una cosa è certa: lo studio era un privilegio, la promozione una conquista, il
Pag. 7 diploma o la laurea erano il coronamento di sogni e di aspirazioni. Ma soprattutto la Scuola rappresentava la certezza di un futuro migliore e la garanzia di una società più civile e progredita. Poi, improvvisamente, il vento cambiò…e travolse tutto e tutti. Cambiarono i tempi, cambiarono gli Italiani, cambiò la Scuola. Nei nuovi programmi delle Elementari la Religione non fu più “a fondamento e coronamento dell’educazione e dell’istruzione”; nelle Medie, istituite in ogni paese e divenute obbligatorie, furono eliminati il Latino e l’Economia Domestica, (abbasso le Lettere morte, evviva il Femminismo!); le divise scolastiche furono abolite nelle Superiori e nelle Medie; i grembiuli neri degli scolari sbiadirono nell’azzurro e furono privati del fiocco; l’inizio dell’ anno scolastico da ottobre fu anticipato a settembre; i banchi di legno scuro furono sostituiti dalla plastica verde; i quaderni divennero quadernoni, il trimestre quadrimestre, le pagelle schede di valutazione, i voti si tramutarono in giudizi. Le cattedre scesero dalle pedane, la Scuola diventò Moderna e cominciò una Nuova Era Scolastica.
Da alcuni anni a questa parte la nostra scuola è diventata il banco di prova dei governi che si avvicendano alla guida del Paese. Un modo bizzarro di governare, che coinvolge tutti gli ordini dell’istruzione e, in particolare, quello della scuola Primaria. Regna il Centro-destra e si accorcia il tempo scuola, si aboliscono i moduli in favore dell’insegnante prevalente (una specie di insegnante unico), si mortificano il tempo pieno e quello prolungato e, al posto delle “unità didattiche”, si impongono le “unità” di apprendimento che, essendo un microcosmo culturale autonomo e autosufficiente all’interno dell’universo del sapere, si ispirano palesemente alla filosofia del Pragmatismo. Subentra il Centro-sinistra e si cambia rotta: aumenta il tempo scuola, si ripristinano i moduli, si valorizza il tempo pieno e si ritorna alle “unità di apprendimento”che, essendo parti di un sapere unico e in costante evoluzione, sono la naturale conseguenza di una concezione storicistica del mondo e della vita. Passa solo un anno e il ritorno al potere del Centro-destra impone di nuovo di cambiare tutto e di ritornare alle precedenti disposizioni. Come sempre (ormai da decenni) i provvedimenti più radicali si concentrano soprattutto sulla scuola Primaria, lasciando quasi indenne la scuola dell’Infanzia e la Media e coinvolgendo marginalmente le scuole Superiori, eccezion fatta per gli Istituti professionali. Si propongono provvedimenti che modificano radicalmente le concezioni filosofiche e culturali sulle quali poggia un contesto sociale e si pretende che vengano attuati dall’oggi al domani. Emblematico di questo incomprensibile modo di agire è l’episodio di Charles Darwin, uno dei pilastri della cultura scientifica mondiale di tutti i tempi. Intorno a Darwin si può dire di tutto, si possono esprimere i pareri più disparati, ma pensare di eliminarlo dai Programmi scolastici e, per di più, pensare di farlo dall’oggi al domani è come pensare di prosciugare il mare con un guscio di noce. Eppure qualcuno ha pensato di farlo e nessuno si è scandalizzato.
Dal governo della scuola italiana è stata bandita la prudenza, l’accortezza, la saggezza. Tempo pieno sì, tempo pieno no! Maestro unico sì, maestro unico no! Darwin sì, Darwin no! Sembra un gioco da bambini (per i quali il mondo è tutto bianco o tutto nero) ed in realtà è un gioco al massacro, proprio in tempi in cui la scuola avrebbe bisogno di amministratori seri, competenti ed equilibrati. In tutto questo bailamme la scuola italiana (la Primaria in particolare) assomiglia sempre più ad una grande nave in balia di un’anomala tempesta. Viviamo in un momento in cui cittadini e governanti non riescono a capire che la scuola non si gestisce con le contrapposizioni e tanto meno con le ideologie, ma con il confronto sereno e costruttivo, costantemente proteso alla ricerca di valori condivisi e senza mai perdere di vista il bene comune. Nonostante tutto ciò sono fiducioso! Ho fiducia nella scuola pubblica italiana. Nella sua solida struttura, costruita in tanti decenni di vita e di positive esperienze. Ho fiducia nelle sue capacità di interagire positivamente con le scuole private e di impegnarsi progressivamente nella costruzione della scuola europea, che è la nostra nuova vera frontiera. Una frontiera che vede seriamente impegnato il governo dell’Unione e, in parte, anche quello italiano. In questa direzione sta cercando di muoversi anche la nostra scuola, attraverso l’intensificazione dello studio della lingua inglese e la realizzazione dei progetti “Cambridge Esol Examination” e “Talkschool”. Ho fiducia nelle famiglie, che non devono mai smettere di collaborare positivamente con la scuola, bandendo tutti i particolarismi, nella consapevolezza che il bene del singolo deve tendere verso il bene di tutti, oppure confligge con i più elementari diritti dell’uomo e del cittadino e infrange i canoni basilari di ogni educazione. Ho fiducia nei docenti che forse (non vorrei essere partigiano) sono gli unici custodi dei grandi valori della solidarietà e della convivenza e, come tali, ancora riescono a influenzare positivamente le menti e i cuori dei nostri ragazzi. Se non ci fossero
i docenti e l’azione continua di tante realtà educative locali, resterebbe ben poco di veramente positivo, in una società fortemente pervasa dalle mode e dai mezzi di comunicazione sempre più condizionati dagli interessi economici e sempre meno disponibili alla cura dei principi, dei valori e della morale. Ho tanta, tantissima fiducia negli alunni e, più in generale, nei nostri giovani. Non è vero che in quest’ambito è tutto negativo. Ci sono tantissimi ragazzi che affrontano la scuola e la vita con impegno e dedizione ammirevoli e, per ciò stesso, meritano tutta la nostra fiducia e il nostro sostegno. Ho fiducia, infine, nel personale ausiliario e amministrativo della scuola, che affronta sempre con dedizione le continue richieste di nuove competenze e nuove abilità, necessarie per una scuola che si va sempre più specializzando e che ha sempre più bisogno di una macchina burocratica e amministrativa al passo coi tempi. Consapevole dei numerosi problemi che ci affliggono, ma forte della certezza che si possono risolvere, formulo i miei migliori auguri di buon anno a tutta la scuola tavianese. Mi auguro che l’anno scolastico 2008/09, un anno certamente di grande impegno e di duro lavoro per tutti, sia l’anno della riflessione e della saggezza. L’anno in cui, accanto alla presa di coscienza che la scuola è il principale motore del progresso economico, sociale e culturale di ogni popolo, maturi anche la consapevolezza che la scuola italiana, ormai stanca e afflitta da provvedimenti tampone e da schermaglie politico-ideologiche, necessita di una riforma generale, funzionale e condivisa, sorretta dai principi della solidarietà, dell’autonomia e della salvaguardia delle libertà di tutti e di ciascuno.
Fatti eclatanti... e non, accaduti fra il 1908 e il 1998 (periodo: maggio-agosto)
21 Giugno 1908, domenica: A Londra 250.000 persone partecipano alla più grande manifestazione mai organizzata per esigere il riconoscimento del diritto di voto alle donne. Neppure con questa oceanica adunanza, tuttavia, il movimento delle “suffragette”, guidato da Emmeline Pankhurst, riesce a far cambiare idea ai politici. Solo il 7 maggio 1928 le donne inglesi acquisiscono il diritto di voto al conseguimento della maggiore età (21 anni).
30 Giugno 1908, martedì: Cade un enorme meteorite in Siberia. Il fatto viene prontamente segnalato dalla popolazione, atterrita dall’evento incredibilmente singolare.
12 Agosto, 1908, lunedì: Viene proiettato a Parigi il primo cortometraggio a disegni animati, realizzato da Emile Cohl. L’opera si intitola Fantasmagorie, si compone di 2.000 immagini e dura due minuti.
23 Maggio 1918, giovedì: Dopo una settimana di sanguinosi combattimenti lungo le rive del Piave, i soldati italiani infliggono una pesante sconfitta alle truppe austro-tedesche. Inizia da qui la controffensiva che si concluderà con la vittoria finale di Vittorio Veneto. L’armistizio sarà siglato il 3 novembre a Villa Giusti, presso Padova.
16 Luglio 1918, martedì: A Ekaterimburg, in Russia, l’intera famiglia reale dello zar (compresa la piccola Anastasia, sulla cui sorte nasceranno svariate leggende) viene fucilata dalla polizia segreta sovietica.
28 Maggio 1928, lunedì: Si apre presso il Tribunale speciale di Torino il processo ad Antonio Gramsci e agli altri membri del Partito Comunista, accusati di associazione sovversiva. Il P.M. Michele Isgrò, a proposito di Gramsci, dirà: «Dobbiamo impedire a questa testa di funzionare».
28 Luglio 1928, sabato: Ad Amsterdam si apre la IX edizione delle Olimpiadi. Contro il parere del barone de Coubertin vi partecipano per la prima volta anche le donne.
14 Luglio 1938, giovedì: Esce sul “Giornale d’Italia” un anonimo Manifesto degli scienziati razzisti, che riscuote l’approvazione del Segretario del P.N.F. Starace. Il successivo 5 agosto inizia le pubblicazione il quindicinale “La difesa della razza”. Sono i prodromi dei decreti antisemiti che verranno approvati a due riprese il 1° Settembre e l’11 Novembre e che di fatto ghettizzano gli ebrei, radiandoli dagli impieghi, privandoli dei diritti di cittadinanza e proibendo loro il matrimonio con gli italiani. Enrico Fermi, di origine ebrea, ritirato a Stoccolma il premio Nobel per la fisica, riparerà con la famiglia negli USA.
8 Agosto 1938, lunedì: A Mauthausen si inizia
Enrico Fermi la costruzione del primo lager nazista in territorio austriaco. La manodopera è costituita da 3.000 detenuti del campo di concentramento di Dachau.
14 Maggio 1948, venerdì: David Ben Gurion proclama la nascita dello Stato di Israele. Il primo era stato fondato nel 1020 a.C. dal re Saul. Da questo evento deriverà la questione palestinese, tuttora insoluta.
14 Luglio 1948, mercoledì: Antonio Pallante, estremista di destra originario di Catania, spara due revolverate a Palmiro Togliatti, mentre esce da Montecitorio. La notizia suscita profonda indignazione e minaccia di far precipitare il Paese in una nuova guerra civile. La sera del 19 luglio Togliatti è dichiarato fuori pericolo.
26 Luglio 1948, lunedì: Gino Bartali vince il Tour de France e la notizia contribuisce a rasserenare gli animi degli italiani, ancora tesi per l’attentato a Togliatti.
28 Giugno 1958, sabato: Per iniziativa del musicista Giancarlo Menotti si inaugura a Spoleto il Festival dei due mondi.
29 Giugno 1958, domenica: Il Brasile diventa campione del mondo di calcio battendo la Svezia per 5 a 2. I brasiliani adottano il modulo 4-2-4, con un attacco da favola: Garrincha, Pelè, Vava e Zagalo.
10 Maggio 1968, venerdì: Dopo i gravi scontri fra studenti e Polizia, verificatisi a Nanterre, altre manifestazioni violente si susseguono aParigi. È il c.d. “Maggio francese”. I giovani protestano, non solo in Francia ma in tutto il mondo, rivendicando la riforma della Scuola e dell’Università, ma soprattutto, un mondo più libero e giusto.
5 Giugno 1968, mercoledì: Il giordano Sirhan Sirhan compie un attentato a Los Angeles contro il senatore Bob Kennedy, candidato alla Presidenza degli Stati Uniti, che muore il giorno dopo. Quel drammatico giorno è stato di recente rievocato in un bellissimo film, “Bobby”.
17 Luglio 1968, mercoledì: Prima a Londra del film a disegni animati The Yellow Submarine, con la colonna sonora dei Beatles. Sarà un grande successo di pubblico, ma rappresenterà anche il “canto del cigno” per i Beatles che, di lì a poco, si scioglieranno.
20 Agosto 1968, martedì: Malgrado la resistenza della popolazione e le proteste internazionali, le truppe del Patto di Varsavia occupano la Cecolsovacchia. Il Premier Aleksander Dubcek è arrestato, la Primavera di Praga finita. Un giovane, Jan Palak, per protesta, si darà fuoco in Piazza San Venceslao.
9 Maggio 1978, lunedì: Reinhold Messner e Peter Habeler sono i primi a scalare l’Everest senza bombole di ossigeno.
18 Maggio 1978, giovedì: La leggenda del ciclismo Eddy Merchx si ritira dalle gare.
21 Giugno 1978, mercoledì: L’opera rock Evita, di Andrew Lloyd Webber, esordisce a Londra. Ne sarà tratto anche un film con Madonna e Antonio Banderas.
8 Luglio 1978, sabato: Il nuovo Presidente della Repubblica italiana è il socialista Sandro Pertini. Ex-partigiano, dal carattere forte ed irruento, sarà il Presidente più amato dagli italiani.
Locandina del film “The Yellow Submarine” 26 Luglio 1978, mercoledì: In Gran Bretagna viene alla luce il primo neonato fecondato fuoridal grembo materno. È una bimba, cui verrà posto il nome di Louise. Con la tecnica della fecondazione assistita molte coppie possono coronare il sogno di avere un bambino.
Pag. 9 6 Agosto 1978, domenica: Muore Papa Paolo
VI. Il suo è stato un papato molto difficile, anche a causa delle profonde trasformazioni che hanno interessato il mondo e la Chiesa Cattolica, stretta fra il conservatorismo di prelati come il Cardinale Siri e i fautori della c.d. “teologia della Liberazione”. Paolo VI ha saputo, tuttavia, esercitare il suo Magistero con sobrietà e moderatismo, sempre attento ai diritti ed alle necessità dei più deboli. Suo successore sarà Albino Luciano, Papa Giovanni Paolo I. 11 Giugno 1988, sabato: A Londra si svolge un concerto rock in onore del leader sudafricano Nelson Mandela, in carcere da 20 anni. Il concerto rappresenta anche una vibrata protesta contro il regime dell’apartheid. Alla fine Mandela riuscirà vincitore e da Presidente del Sud-Africa porrà fine alla discriminazione razziale.
28 Agosto 1988, domenica: Nella città tedesca
di Ramstein, nel corso di un volo dimostrativo della pattuglia aerea italiana delle frecce tricolori, tre caccia a reazione si scontrano e precipitano al suolo. Nel terribile incidente perdono la vita 70 persone. Anni dopo, qualcuno parlerà di un attentato legato alla vicenda dell’aereo caduto a Ustica.
5 Maggio 1998, martedì: In Val di Sarno una frana dovuta al maltempo travolge alcuni paesi, causando 161 morti e danni per miliardi.
6 Maggio 1998, mercoledì: Viene finalmente arrestato il serial-killer Donato Bilancia, reo confesso di 15 omicidi. Sarà condannato all’ergastolo.
2 Agosto 1998, domenica: Il ciclista italiano Marco Pantani, dopo aver vinto il Giro d’Italia, vince anche il Tour de France. Su di lui - e sul ciclismo - aleggia tuttavia l’ombra del doping (che sarà la causa, anni dopo, della prematura scomparsa del “pirata”).
Marco Pantani 17 Agosto 1998, lunedì: In un discorso in televisione il Presidente statunitense Bill Clinton ammette di aver avuto un “rapporto improprio” con l’ex stagista Monica Lewinsky. Anche in Italia qualcuno grida allo scandalo, ma stando ai pettegolezzi di questi giorni viene da dire che davvero “tutto il mondo è paese”.
Nell’ultimo, recente, bel film per l’infanzia Kung fu Panda, per divenire Guerriero Dragone, cioè il più abile combattente di Kung fu, il protagonista deve impadronirsi di un’antica pergamena, custodita da secoli, contenente il segreto della forza senza limiti: chi fosse riuscito a leggerla sarebbe diventato così potente da sentire il battito d’ali di una farfalla e vedere nel buio della grotta più profonda. Sentire anche un piccolissimo suono della natura, e vedere anche nei recessi più bui: è questo il fondamento del potere umano. Ascolto del mondo (della natura e dell’altro) e ascolto di sé, capacità di guardarsi dentro. Ma oggi è difficile, quando non impossibile, per chi lo voglia, ritagliarsi un tale potere anche in questo lembo di terra del Salento, un tempo non lontano isola felice.
“L’inciviltà sonora produce un concerto ininterrotto: motociclette adattate ad arte per far rumore, automobili con l’autoradio a bomba, urla notturne, l’odiosa abitudine di rimpinzare di musica negozi, bar, ristoranti… Chi va a sentire il rock allo stadio compie una scelta e, per così dire, ottimizza i decibel, concentrandoli in un singolo e apposito spazio, e in due ore ditempo. È il resto, è il fracasso disperso e imposto, è la musica involontaria e passiva quella che sfascia i nervi. E viola la libertà degli altri.”
Così Michele Serra su La Repubblica; e parlava di città del Nord! La cacofonia di suoni che ci circonda a intervalli regolari - avvertono studi scientifici - mette in pericolo la nostra salute: è causa di ipertensione, stress, aggressività, disturbi cardiaci. Eppure, nonostante questi allarmi del mondo scientifico, nonostante il disagio che tanti, quotidianamente, vivono sulla propria pelle, le nostre case, le nostre strade, le nostre giornate sono sempre più invase dal rumore: lo stereo dei figli, il televisore dei vicini, l’ululare dei cani abbandonati in casa e fuori, le irritanti onnipresenti suonerie dei cellulari e degli allarmi antifurto che suonano a distesa… E allora, si attende con ansia l’estate, come tempo dell’anima, del riposo fisico ma soprattutto
interiore, della distensione. Anche il Papa ogni anno, in prossimità delle vacanze, invita a riscoprire il valore del silenzio e a coltivare questa “indispensabile dimensione interiore dell’esistenza umana”. E, invece, anche il senso delle vacanze - quella fetta della nostra vita in cui ognuno ha il diritto di concedersi il meritato relax - sembra si stia pericolosamente ribaltando: non un tempo “vuoto” (come vuole l’etimologia latina) da riempire con ciò di cui si ha più bisogno, ma, al contrario, il più intasato: di volgarità, di rumori, di decibel che si insinuano in ogni angolo delle nostre case, di “deregulation” nel traffico, nelle file al supermercato, sui bagnasciuga anche della nostra piccola marina… Tra i tanti esempi: la mattina, in spiaggia, non è possibile ascoltare il mormorio dolce delle onde sulla battigia, le voci ovattate dei bambini, leggere o contemplare in silenzio gli azzurri di mare e cielo. Non è possibile perché a imperare è la musica, magari di genere House con lo snervante tam-tam dei suoi bassi. Trascorrere qualche ora della sera in riva al mare, per sfuggire all’afa? Sì, ma... .per averne in cambio, senza soluzione di continuità, la tortura acustica imposta da terzi (ormai da anni, una serata a
due passi dal mare, rinfrancati dalla brezza e dal fruscio dolce della risacca è DAVVERO solo un’utopia, un nostalgico sogno da… fanciullino pascoliano). Osserva qualcuno con miopia: è il progresso! Ma se - come diceva un Padre della Chiesa nella vita spirituale “non progredi est regredi” (non andare avanti significa andare indietro) non sempre è così nella vita materiale; spesso succede che proprio un malinteso senso del progresso equivale a regredire rovinosamente: nell’inciviltà dei rapporti umani, nella superficialità dello spirito, nella disattenzione e disaffezione verso ciò che ci circonda. In un libro (Manifesto per il silenzio) pubblicato un anno fa da uno studioso inglese, il Professore universitario Stuart Sim, si sostiene che il rumore è una guerra condotta dalle forze del progresso economico contro l’individuo. Religione, filosofia, musica dimostrano che il silenzio non contraddistingue l’assenza di qualcosa bensì rappresenta un bene di importanza cruciale per la nostra civiltà: è il fiume in cui naviga il pensiero umano. Cogito ergo sum: non si può pensare, ma neppure leggere, ma neppure comunicare, ascoltare (se stessi, gli altri, la “propria” musica) se si è circondati dal fracasso. Forse siamo ancora in tempo per un’inversione di tendenza; chi è convinto che i sogni buoni non sono roba per idealisti batta un colpo! Scoprirà il segreto dell’antica pergamena custodita dalla notte dei tempi.
Se l’arrivo di giugno dona ad ogni tavianese la gioia di riaprire le porte delle case di Mancaversa, per trascorrere lì le tanto desiderate vacanze, gli ultimi giorni di agosto segnalano l’imminente fine della stagione. Cosa rimarrà dell’“Estate-Mancaversa 2008”? Senz’altro sarà impossibile dimenticare la limpidezza e il luccichio del mare, che è un elemento qualificante della nostra Marina, insieme alla costa “decorata” dalla naturalezza della Macchia Mediterranea, diventata per noi Salentini un vero marchio di prestigio da curare e rispettare. Tante belle mattinate da trascorrere al mare e tante suggestive serate a cui partecipare, allietate da sagre e varie rappresentazioni teatrali e musicali; come dimenticarsi del “simpatico” mercato che ogni mercoledì proponeva una serata per passeggiare, dando l’opportunità di osservare la bellezza del lungomare! Ogni cosa ha contribuito a realizzare tre mesi all’insegna del relax e del
divertimento, per regalare ad ogni tavianese e a tutti i turisti, che puntualmente ogni anno ci fanno visita, un’estate “tutta da ripetere”.
Il bilancio della stagione estiva di Mancaversa, secondo il mio parere, è sostanzialmente in linea con quello degli scorsi anni. Nonostante una congiuntura economica negativa, che, ovviamente, ha avuto una ricaduta anche nel settore turistico, le presenze hanno registrato il consueto affollamento nel periodo di Ferragosto, confermando il trend nazionale che vede diminuire i giorni di permanenza dei turisti. Gli eventi più rilevanti da ricordare della stagione sono l’inaugurazione dell’area parcheggio e sosta per auto e caravan in via dei Gigli, il completamento e la messa a norma dell’impianto di pubblica illuminazione in località Giannelli, la creazione del marchio di accoglienza turistica e, ovviamente la splendida serata del concerto dei Nomadi. Mancaversa offre diversi punti di ritrovo e di aggregazione come piazza delle Rose, il lungomare Jonico, piazza Mancaversa, il parco Jonico, piazza S. Anna. Quello che per molti è un aspetto penalizzante, in quanto vi è il dislocarsi della gente in più luoghi, secondo me è un punto di forza, in quanto
permette di avere possibilità di scelta e consente una migliore circolazione stradale, come si è potuto positivamente sperimentare in occasione di serate caratterizzate da un notevole afflusso di gente. Sono in preventivo, per il breve termine, alcuni progetti relativi a Mancaversa come il riutilizzo della zona del campo sportivo che, tramite un project financing, diventerà area per sagre e spettacoli, dotata di ampio parcheggio e rispettosa di tutte le norme di igiene e sicurezza. Con l’apporto di tutte le forze politico-sociali della Città, con la condivisione di tutti i cittadini e degli operatori economici della marina, bisogna lavorare per attrarre turisti ed investitori, puntando sulla capacità di accoglienza, sull’onestà e, soprattutto, sulle condizioni di tranquillità e quieto vivere civile che ha sempre saputo offrire la nostra amata Mancaversa.
Sono stata per un lungo periodo lontana dal luogo in cui sono nata, Taviano, e molto spesso i miei ricordi si soffermavano su quello che da sempre mi ha regalato grandi emozioni: il “mio” mare, con i suoi colori e il suo profumo impareggiabili. Adesso ho ristabilito la residenza nella mia cittadina e sono sempre più convinta che la natura ci abbia privilegiati regalandoci tanta bellezza, che però si scontra in maniera molto evidente con il contesto urbano che la circonda. Ho notato che manca un’adeguata attenzione al miglioramento dei servizi pubblici per il mantenimento di strade, piazze e coste. Penso anche che maggior riguardo si sarebbe dovuto dedicare alle serate di intrattenimento, in forma molto sobria, ma programmate in modo tale da poter soddisfare le esigenze dei turisti che hanno deciso di soggiornare nella nostra marina. Per cui penso che tutti dovremmo soffermarci e fare dei bilanci, evidenziando le zone d’ombra, se vogliamo che sortisca l’esatto risultato del concetto di “programmazione”, perché è solo in questo modo, e non perseguendo la strada dell’improvvisazione, che possiamo proficuamente guardare alle stagioni successive. Una nota positiva a cui do atto è stata la manifestazione “Chloris arte in fiore”: gli organizzatori hanno saputo regalare due serate raffinate ed eleganti, inorgogliendo il mio senso di appartenenza ad una cittadina che, in un tempo non remoto, è stata “generosa” di buon gusto.
“L’estate sta finendo”… recitava con rammarico e tristezza una canzonetta tormentone di alcuni anni fa. Ed è proprio vero, la fine dell’estate porta tristezza, soprattutto se si guarda a quella che è stata questa stagione per la nostra città e si vede un periodo di tre mesi veramente grigi e non certo per ragioni meteorologiche. È perciò tempo di bilanci e di analisi su come anche quest’estate sia trascorsa, sia per i nostri turisti, sia per i nostri operatori. Il giudizio, anche se ancora privi di numeri non può che essere negativo. E non ci si venga a dire che la ragione è nella crisi economica che sta attraversando il nostro Paese, o nel fatto che l’amministrazione comunale insediata da poco più di due anni non ha potuto organizzare un’adeguata attività promozionale per la stagione che sta finendo. La prima congettura è facilmente contestabile, affermando che gli italiani e soprattutto gli stranieri non hanno rinunciato alle vacanze, magari
brevi, ma pur sempre vacanze fuori della città ed in particolare al mare… basti pensare ai migliaia di kilometri di coda nelle autostrade. La seconda giustificazione è altrettanto priva di fondamento. Ed allora perché Taviano sembra essere così in difficoltà? Il discorso sarebbe troppo lungo, ma è necessario fare alcune riflessioni perché si apra un dibattito serio, costruttivo e si passi dalle buone intenzioni ai fatti. Non vogliamo seguire il modello “Racalino”, scopiazzarlo diventerebbe sempre una “brutta copia”, ormai questo sembra essere un dato assodato,
ma allora quale altro modello vogliamo rappresentare nello sterminato campo delle offerte turistiche. Questo bisogna che i nostri amministratori ce lo dicano. Perché se continuiamo a puntare solo sul sole, sul mare e magari su una bandiera blu, che ormai sta diventando come un “cavalierato”… cioè non la si nega a nessuno, non faremo molta strada, nel campo turistico. Che cosa contraddistingue la nostra città? Nell’immaginario collettivo che cosa il grande pubblico associa Taviano e la sua Marina di Mancaversa? Tutti conoscono Gallipoli, Otranto, ma anche Ugento e tanti altri Comuni del salento, ciò non avviene più per Taviano! E questo ci deve preoccupare perché nella società globalizzata e mass-mediatica in cui purtroppo viviamo, la popolarità è fondamentale per poter sopravvivere commercialmente. Non siamo più nemmeno Oasi di tranquillità, felice slogan, forse un po’ antiquato, ma che almeno ci contraddistingueva fino agli anni ’80. Serve dare una chiara connotazione al nostro turismo, e bisogna farlo coerentemente. Serve dare più forza al Sistema turistico Locale, maggiori risorse all’assessorato al turismo con sempre più competenze in materia di promozione soprattutto. Abbiamo bisogno di risposte chiare da parte dei nostri amministratori, perché “l’estate sta finendo”… ma a Taviano è mai iniziata!?
Il Salento è la parte della Puglia più vivace per quanto riguarda l’estate delle processioni, concerti bandistici, spettacoli di musica leggera e fuochi pirotecnici, sagre e fiere allietate da canti, a suon di tarante e pizziche; tali eventi diventano una necessità per le marine dell’unione dei comuni Taviano, Alliste, Melissano, Racale che, vivendo di luce riflessa, devono organizzarsi per attrarre i turisti e far conoscere le proprie bellezze architettoniche e naturali. Da quello che ho potuto notare leggendo i depliant delle manifestazioni estive anche quest’anno i comuni della nostra unione si sono dati da fare seguendo tuttavia una politica campanilistica che ha portato a duplicazioni di manifestazioni simili negli stessi giorni (caso emblematico l’11 agosto serata a Mancaversa dei Nomadi e contemporaneamente a Torre Suda di Mario Biondi) e non programmando una stagione estiva unica che porti il turista verso un unico ideale itinerario che lo metta nelle condizioni di appezzare i sapori, il suggestivo paesaggio, il mare cristallino e i centri storici tipici dei nostri comuni.
In quest’ottica devono entrare non solo i nostri amministratori pubblici, ma anche gli operatori commerciali (bar, trattorie, pizzerie, bed & brekfast, alberghi e affittuari) che devono fare la loro parte imparando a fare sistema e ad offrire tutti insieme, non come concorrenti, una gamma di servizi che renda la vacanza di chi a scelto il Salento indimenticabile. Volendo dare uno sguardo alla stagione estiva che si sta per concludere ritengo che sia stata notevolmente influenzata dalla crisi economica (il notevole calo di presenze turistiche nell’intero Salento meno settanta per cento secondo il quotidiano di Lecce, nel mese di luglio ne è la riprova); che vi sia stato una concentrazione di presenze turistiche notevolissima nel solo mese di agosto (troppo in troppo poco tempo); ed infine che vi sia stato un ritorno dei giovani (forse perchè le famiglie non si potevano permettere affitti così alti!!!) che non so se definire positivo o meno. L’augurio è che la prossima sia una stagione estiva più parteciapata sia nel pubblico che nel privato, e maggiormente destagionalizzata.
Nello scorso mese di luglio c’è stato il “cambio della guardia” nella Parrocchia dell’Addolorata. A don Albino De Marco, per 11 anni Amministratore e Parroco, è succeduto don Fernando Vitali (per lui si tratta di un ritorno a casa). Pubblichiamo una sintesi dei loro interventi di saluto e formuliamo loro il nostro fervido augurio di una buona missione pastorale alla guida del popolo di Dio.
D opo l’annuncio della conclusione del mio incarico di Parroco nella Parrocchia della B.V.M. Addolorata di Taviano, e del mio trasferimento, ho pensato molto a quale atteggiamento fosse più giusto conservare nell’intimo del cuore, in questa circostanza terminale. All’immediato dispiacere, che molti di voi mi hanno manifestato personalmente, si è subito affiancata una sensazione di intima soddisfazione, proveniente dal ricordo di tutto ciò che di positivo è stato costruito negli anni del mio servizio nella nostra amata Parrocchia. Per tutto ciò che di bello e di buono insieme abbiamo reso possibile voglio ringraziare innanzitutto il Signore, da cui proviene ogni dono e benedizione. Mi sembra opportuno, poi, manifestare una grande riconoscenza alla mia famiglia che, assistendomi quotidianamente, mi ha dato la possibilità di poter pensare convenientemente al mio servizio. Un grazie sentito va poi ai Confratelli Sacerdoti, agli ammalati che mi hanno sostenuto con l’offerta della loro sofferenza, e a tutti coloro che hanno espresso collaborazione con diverse modalità e nelle più varie situazioni; ringrazio poi le Amministrazioni Comunali che si sono avvicendate in questi anni, le Forze dell’Ordine e tutte le Associazioni cittadine e parrocchiali. Un grazie di cuore, ancora, va a tutti quelli che, con tanto rispetto e discrezione, mi hanno offerto la loro amicizia, preziosissima per me, ed hanno speso parte notevole del loro tempo e delle proprie energie per sostenermi, in maniera particolare nei momenti di difficoltà. Dopo tredici anni trascorsi in questa Città, posso dire tranquillamente che Taviano mi è entrata nel cuore e che qui, fino ad ora, ho trascorso i migliori anni della mia vita. Sono sicuro che non è finito tutto, qualcosa rimane: restano quei sentimenti e quelle relazioni umane ed affettive, maturate nel corso del tempo, che vanno anche al di là delle cariche puramente istituzionali. Voglio dire con certezza che con voi, fino ad oggi, sono stato Parroco; per voi, da oggi resterò fraternamente amico. Mi mancherà sicuramente lo sguardo protettivo della nostra cara Madonna del Miracolo; ogni giorno, da dietro, mi guardava le spalle… mi sa che da oggi in avanti Sant’Antonio si dovrà dar da fare parecchio per starle alla pari! A tutti voi raccomando Lei, la Madonna del Miracolo: rispettatela, amatela, servitela come lei vi rispetta, vi serve, vi ama. Vi auguro veramente ogni bene per il futuro e su tutti voi, molto volentieri, invoco ogni benedizione da parte del Signore.
La FraseI vecchi si compiacciono di dare buoni consigli, per consolarsi di non essere più in grado di dare cattivi esempi. François La Rochefoucould N el salutare le autorità religiose e civili e tutti i parrocchiani, il mio primo pensiero va a Dio; a Lui, ricco di misericordia, affido la mia miseria. Subito dopo il pensiero corre a Don Luigi Antonazzo, primo Parroco di questa comunità, a cui ha dato tutto se stesso fino all’ultimo; il Signore lo renda partecipe della liturgia celeste. Il mio ringraziamento particolare va a Don Albino per quanto ha fatto, sia per la cura pastorale delle anime, sia per il restauro di questo nostro Santuario, riportato agli splendori originali e reso anche più funzionale. Oggi vi dico che vi voglio bene, ma ve lo dirò ancora più forte domani, nel Getsemani, nel Pretorio, sul Calvario, dove il voler bene costa di più, ma ha una sapore diverso. Nel dare inizio al mio Ministero pastorale nella Parrocchia della B.V.M. Addolorata, faccio mie le parole di Sant’Agostino, che hanno sempre ispirato il mio Ministero Sacerdotale: “Non appartieni più a te. Sei servo di tutti”. Non appartengo più a me, appartengo a Dio e a voi. Non devo essere né di questi né di quelli, ma di tutti. Prima che a voi, appartengo a Cristo, ed a Lui devo dare la priorità. Niente è così necessario a un sacerdote quanto la preghiera, che
padre e del fratello, quando ne è il caso, parlare con franchezza anche se gli costa il farlo. Vengo a voi a mani vuote. Il Parroco è uno che ha bisogno di tutti. Ha bisogno anzitutto di Dio, perché senza Dio potrebbe nulla e avrebbe nulla da dare. Ha bisogno degli altri, perché senza collaboratori potrebbe poco e avrebbe poco da
dare. Vengo a voi perché mi consideriate un gradino per arrivare a Cristo. Vengo a voi con la mia pochezza e i miei difetti, ma vi prego di non confondere me e le mie debolezze con Cristo che è bontà. Ringrazio e saluto i Confratelli Sacerdoti, tutte le Associazioni e i gruppi parrocchiali, tutti coloro che, in vario modo, collaborano in Parrocchia; a tutti assicuro che troveranno in me un interlocutore attento e fraterno. Ringrazio la Comunità e il Sindaco di Racale, per la collaborazione e la squisita sensibilità e attenzione forte ai problemi della Città. Saluto il Sindaco di Taviano e la Giunta Comunale, tutte le Autorità militari e le Associazioni che operano nel sociale. Un saluto affettuoso e fraterno alla Comunità di San Martino con il suo Parroco, assicurando collaborazione e comunione nella linea pastorale. A tutti chiedo due cose: fatemi largo nei vostri cuori e seguitemi nella preghiera, che sarà la mia forza. Il Signore mi conceda la sapienza del cuore e la fedeltà alla chiesa. La Vergine Addolorata ci presenti al suo figlio Gesù, ci tenga uniti e faccia di noi una famiglia, che dal Cenacolo si porta nella quotidianità da missionaria a diffondere il seme della Parola di Dio, perché il Suo Regno si compia.
Nello scorso mese di giugno è stato inaugurato il restaurato Palazzo Marchesale. La
restituzione alla città dell’antica dimora dei marchesi De Franchis (XVII sec.), che ha visto coinvolte a vario titolo le ultime quattro civiche amministrazioni (guidate dai sindaci Ria, Longo, Tanisi e D’Argento), costituisce opera altamente meritoria, sia - com’è ovvio - sotto il profilo storico-architettonico, sia sotto il profilo socio-culturale, potendo il Palazzo fungere da contenitore per mostre, spettacoli, conferenze e quant’altro. Si attende ora - finanziamenti permettendo -il completamento dell’opera.
Io non c’entro nulla! Se qualcosa non funziona come previsto, non prendetevela con me ma col Ministro Tremonti, che ha inopinatamente usato il mio nome (gli chiederò i diritti d’autore)! Mi riferisco all’ultimo balzello inventato dallo Sceriffo di Via XX Settembre, la Robin Hood tax, la tassa studiata per togliere ai ricchi (petrolieri e banche) per dare ai poveri (cittadini e utenti). Sbandierata come la grande novità fiscale del nuovo governo, non pare stia dando i frutti sperati: il prezzo della benzina e del gasolio sono sempre altissimi, nonostante quello del greggio sia sceso sensibilmente, mentre di eliminare taluni costi, assolutamente ingiustificati, dai conti correnti bancari non se ne parla nemmeno. Finirà come sempre: a pagare sarà il cittadino (altro che guerra ai “poteri forti”). Ma non è di tasse che voglio parlare, anche perché siamo a settembre, mese di rincari, e non intendo angustiare ulteriormente il paziente lettore, già preoccupato di suo. Parliamo, invece, di sicurezza. Si sa che questo è uno dei problemi cruciali del nostro Paese, con quattro regioni in lotta con le varie mafie ed un tasso di corruzione fra i più alti nel mondo. Logico, quindi, aspettarsi che i governanti affrontino con fermezza un problema così rilevante. E invece cosa ha partorito, fra le tante misure (alcune sensate), l’ultimo provvedimento legislativo? La creazione di una nuova figura mostruosa, una sorta di irco-cervo dai lineamenti non ancora ben definiti: il Sindaco-sceriffo. Sulla scia di alcuni mitici Sindaci americani (Giuliani su tutti) e venendo incontro a pressanti richieste della base (molti “primi cittadini”, di diverso colore politico, hanno chiesto a gran voce di essere ancora più… primi), il Parlamento, piuttosto che dotare di mezzi e strutture chi è professionalmente preposto alla tutela dell’ordine e della sicurezza (forze dell’ordine e Magistratura, che hanno visto, invece, sensibilmente ridotti i loro stanziamenti), ha pensato bene di conferire ai Sindaci tutta una serie di poteri in materia di sicurezza, trasformandoli, appunto, in Sindaci-sceriffi. E qual è stato il risultato
di cotanta riforma? Tutta una serie di provvedimenti che con la sicurezza - quella vera
-hanno poco a che fare. Qualche esempio. A Novara e a Voghera, dopo le 23, non si può stazionare nei parchi cittadini o sedersi sulle panchine in più di due, pena una multa da 500 euro. Così - immagino - si dovrà necessariamente passeggiare, allineati e coperti, in fila per due e a debita distanza gli uni dagli altri, per non fare assembramento; se, poi, qualcuno intende dire qualcosa all’amico di un’altra coppia, dovrà, come in una staffetta, darsi il cambio con l’interlocutore non interessato. Ad Assisi, Silvi, Pescara, Verona è vietato chiedere l’elemosina, pena una multa da 100 a 1.000 euro. Ora, a parte l’odiosità di una misura che colpisce i più poveri, viene da chiedersi: ma se già quei poveri cristi, sorpresi a tendere la mano, non hanno di che vivere, come pagheranno multe così salate come quella previste dalla nuova legge? E se non le pagheranno (come è probabile) quali saranno le conseguenze? Forse la gogna? la fustigazione in pubblica piazza o cos’altro? O forse, più banalmente, queste disposizioni resteranno lettera morta? Ancora. A Positano sono vietati i fuochi d’artificio in feste private, tutti i giorni tranne il sabato dalle 20,30 alle 23,00, pena una multa da 50 a 500 euro; ad Eboli multa sino a 500 euro per le coppiette sorprese in luoghi appartati ed in atteggiamenti teneri; in alcune località balneari è vietato camminare per strada a torso nudo o in bikini (multa da 50 a 1.000 euro); a Genova e a Brescia non è possibile passeggiare nel centro storico con una bottiglia o un lattina di bevande alcoliche in mano e ancor meno assumere alcolici in luogo pubblico (multa fino a 500 euro); sulla spiaggia di Eraclea è vietato costruire castelli di sabbia, mentre su quella di Auttas (Olbia) è vietato fumare; a Trento non è possibile fotografare i propri figli in piscina, mentre a Roma non è possibile rovistare nei cassonetti della spazzatura; infine il 3 agosto, un uomo che per difendersi dal caldo si era straiato sull’erba, all’ombra di un ippocastano e stava tranquillamente leggendo un libro è stato multato di 360 euro in base ad un’ordinanza sindacale che vietava di adagiarsi sul prato (Battisti oggi non potrebbe più cantare Emozioni: “… E sdraiarsi felice sopra l’erba ad ascoltare un sottile dispiacere”). Che dire di tutto questo? In un Paese con una criminalità invasiva come il nostro (qualcuno legga ”Gomorra” o vada a vedere il film); in un Paese in cui un’intera Giunta Regionale è stata “decapitata” dalla Magistratura per gravi fatti di corruzione; in un Paese in cui ogni giorno
muoiono 4 persone, vittime di incidenti sul lavoro, era proprio necessario dare la stura a così tanti e tali divieti, alcuni dei quali veramente incomprensibili? E l’Italia, grazie ai nuovi super-poteri dei Sindaci, è, oggi, un Paese più sicuro? Il dubbio è lecito, come pure è lecito sospettare che quella intrapresa sia la nuova via al fiscalismo locale: abolita l’ICI (ma qualcuno vuole già reintrodurla!), i Comuni possono finanziarsi con i soldi delle multe ai danni dei malcapitati cittadini. Con il che il cerchio si chiude: ancora una volta più tasse per tutti. E pensare che mi ero impegnato a non parlare di tasse!
I Nomadi sono il “complesso” musicale più longevo della canzone leggera italiana: 45 anni di successi, in questo battuti, di un solo anno, dai Rolling Stones (la cui nascita risale al ‘62). L’11 agosto hanno tenuto un concerto nella nostra marina, molto apprezzato dalla foltissima cornice di pubblico presente. A Beppe Carletti, leader storico del gruppo abbiamo chiesto un’intervista che gentilmente ci ha concesso.
Quest’anno festeggiate quarantacinque anni di “matrimonio” con la musica. Siete stati la colonna sonora di intere generazioni, e siete sempre attuali, sempre nuovi eppure coerenti con il vostro percorso. Cosa vi tiene ancora insieme e vi fa trovare sempre nuovi stimoli?
Quello che ci tiene insieme è la voglia di andare avanti, il nostro credere sempre in quello che facciamo, essendo comunque consapevoli che abbiamo fatto delle cose importanti. Il segreto è divertirsi, e direi che noi ci riusciamo bene: se no non riusciremmo mica ad andare avanti!
Negli anni sessanta vi fu un incredibile proliferare di gruppi musicali (i c.d. complessi). quali le ragioni di questo exploit e il vostro gruppo come nacque? E Perché questo nome: i “Nomadi”?
Negli anni sessanta ci fu l’esplosione dei Beatles, dei Rolling Stones, che ha dato il via a tante cose, ad una nuova stagione. Noi venivamo dall’Emilia Romagna, che è sempre stata una patria della musica: allora c’erano le orchestre che avevano dieci, dodici elementi, poi pian pianino si son ristrette a cinque, sei. Da noi c’era la possibilità di vivere suonando, perché c’erano i locali che ti permettevano di suonare anche tre volte alla settimana, si poteva vivere di musica! Non abbiamo mai cercato il successo, abbiamo iniziato perchè ci piaceva suonare insieme, divertirci; poi nel momento del boom dei complessi noi c’eravamo, ci hanno sentito, abbiam fatto il provino ed eccoci qua… sembra una cosa da film, ma è andata veramente così! Riguardo al nome, all’epoca c’era una mania di scegliere dei nomi stranieri, e a me non andava bene. Allora abbiamo scelto “Nomadi”, ma così, senza sapere poi quello che poteva succedere.
Cos’è cambiato nella musica italiana dal ’63 ad oggi? Meglio il tempo delle balere, dei quarantacinque giri e dei juke-box o di internet e dell’i-pod?
Non voglio essere antico, però forse allora ci si divertiva di più… Adesso c’è internet, so bene che è utile, bellissimo per certi versi; però credo che una volta chi suonava aveva più possibilità di fare esperienza, le balere ti davano questa possibilità: di confrontarti con generi diversi. Un problema di oggi è il fatto che si scarica gratis, e di conseguenza si investe poco nella musica; internet in questo senso non ha fatto delle gran belle cose. Questo è un problema che non riguarda tanto noi, quanto piuttosto i giovani che devono venire: noi abbiamo già avuto tanto, e invece può darsi che tanti gruppi di giovani non avranno la possibilità di crescere e di affermarsi. Poi si sono i network, che danno una bella mano: trasmettono solo i grandi successi, quindi giovani pochissimi, soprattutto musicastraniera. È come se il vostro giornale scrivesse solo notizie che vengono dall’estero! Ma io
voglio sapere quello che succede in Italia, poi dopo anche il resto! In Francia è diverso: i network devono trasmettere almeno il cinquanta, il sessanta per cento di musica francese. È cosìche dovrebbe essere anche da noi! È giusto ascoltare tutto però in primis bisogna valorizzare la musica italiana. Sono un po’ polemico a questo proposito.
Sicuramente voi amate tutte le vostre canzoni, perché ognuna ha una storia dietro, un significato. Ce n’è una a cui siete più legati, magari perché rappresenta una tappa importante del vostro percorso?
No, no, assolutamente… io le ho incise tutte, poi ne ho scritte un bel po’, quindi è difficile per me essere affezionato ad una canzone più che ad un’altra. Poi dipende dallo stato d’animo della giornata, a volte esegui più volentieri una canzone, rispetto ad un’altra, ma non è una preferenza.
Un ricordo di Augusto Daolio?
Un ricordo di Augusto… Ci ho vissuto trent’anni, forse uno solo è un po’ poco! Ciò che lo caratterizzava era sicuramente il fatto che si divertiva tanto! Poi era un grande personaggio, carismatico, e molto curioso di apprendere.
Quest’anno ricorrono i quarant’anni dal ’68, una stagione per molti versi irripetibile. Alcune vostre canzoni di quel periodo sono gli stilemi musicali di una generazione. Cosa ricordate di quell’anno e cosa pensate del ’68 quanto alla politica, alla musica e al costume?
Si respirava un’aria particolare allora. In quel periodo abbiam fatto “Come potete giudicare”, “Noi non ci saremo”, “Dio è morto”, poi dopo “Canzone per un’amica”…siamo stati forse un po’ i precursori, grazie a Guccini; diciamo che siamo stati gli esecutori delle idee di Francesco, le abbiamo fatte nostre, le abbiamo sposate in toto, sapendo benissimo che saremmo anche andati incontro a delle censure. Noi per certi versi eravamo un po’ privilegiati, eravamo su un palco, e allora l’aria che si respirava nelle strade, nelle università, era poco recepibile da noi, eravamo un po’ fuori da quel clima. Eppure una volta siamo stati contestati anche noi: proprio a Reggio Emilia, nella nostra città, ci fecero smettere di suonare! Ricordo che anche De Gregori fu contestato, a Milano. Erano momenti un po’
particolari, c’era chi viveva quel
periodo in un modo veramente
forte, chi voleva farsi sentire.
La stagione del sessantotto non
so quanti benefici può aver
portato… qualcosa di positivo
l’ha portata, ma ha portato anche
delle cose molto strane, che era
meglio se non succedevano. Gli
anni sessanta (a me piace
considerarli in toto) sono stati
comunque anni di grandi
rivoluzioni, di grandi idee;
generalmente ci si riferisce al
’68 perché ha lasciato un bel
segno, però non ci si può limitare a quell’anno, perché fu proprio tutto quel periodo che era gravido di cambiamenti. Dalla fine degli anni cinquanta fino alla metà degli anni sessanta, e forse un po’ di più, c’era un gran bella voglia di vivere, di fare. Ritornando al discorso della musica, si suonava nelle balere, la gente andava a ballare, si voleva divertire, voleva stare insieme. Poi, col tempo, è cambiato tutto…
E l’Italia di oggi com’è?
È un po’ triste! Io non sono mica un indovino, lo vedono tutti che è triste. È un momento un po’ particolare, non solo in Italia, ma nel mondo in generale: adesso è appena scoppiata un’altra guerra (Russia-Georgia, guerra fredda), oggi far la guerra è come sputare per terra! Il petrolio la fa sempre da padrone, e noi siamo schiavi di questa realtà. Io comunque sono sempre fiducioso nella vita, sono convinto che le cose andranno sempre per il meglio, perché quando si tocca il fondo, dopo si può solo risalire… io vedo la mia storia personale con i Nomadi, abbiamo attraversato momenti difficili e siamo risaliti. Mi auguro che sia così anche per l’Italia, e sicuramente sarà così. Perché ora siamo arrivati in fondo, nella musica e in generale nella società.
Voi siete molto impegnati in iniziative di solidarietà in giro per il mondo, penso alla Cambogia, al Vietnam, al Perù. Quali progetti state seguendo attualmente?
Ora seguiamo il Madagascar, ci son stato due anni fa e ci ritorno quest’anno in ottobre. Credo che noi siamo dei privilegiati nella vita, rispetto a tante persone: il fatto stesso che vivo di una passione già è una fortuna incredibile! Poi mi posso permettere anche di viaggiare, e in quel senso non sono di peso a nessuno, e allora seguo delle iniziative umanitarie, mi pago i miei viaggi; facciamo quel che possiamo. In Madagarscar abbiamo adottato già sessantasei bambini; puntavamo a cento, non ci arriveremo, però prendiamo quello che viene, è già un bel po’!
Cosa si aspettano i Nomadi per il futuro e cosa ci riservano? C'è qualche progetto in cantiere?
A fine settembre finisce il nostro tour, poi ci metteremo a lavorare e nell’anno prossimo, a primavera un po’ tarda dovrebbe uscire un nuovo lavoro. L’ultimo era una raccolta delle nostre canzoni del passato e del presente, con un’orchestra sinfonica, il prossimo sarà solo di inediti. Per il futuro più lontano, speriamo di andare sempre avanti, di divertirci ancora insieme... puntiamo alle nozze d'oro!
Chiusa l’esperienza del volley di A2 e del calcio, arretrano i settori giovanili, ma cresce il numero di chi pratica sport.
Inizia una nuova stagione sportiva e per gli appassionati tavianesi si profilano lunghe domeniche davanti agli schermi TV. Il volley nazionale, quello della Salento d’Amare - Stilcasa Volley, che portava i colori della nostra città in giro per l’Italia e portava un po’ della penisola a casa nostra non c’è più. Come non ci sono più i tanti atleti, giocatori dell’ex Unione Sovietica, del Venezuela, del Brasile, degli Stati Uniti, della Germania, della Spagna, che venivano a vivere qui a Taviano non solo un’esperienza professionale, ma anche e soprattutto umana. Pallavolisti che oggi, rivedendoli in tv, ci danno la dimensione di ciò che a Taviano abbiamo vissuto e - diciamocelo francamente - di ciò che i soliti “soloni del giudizio” non hanno compreso e apprezzato perché forse troppo “salottieri” e poco “sanguigni”. Purtroppo, in merito alla cessione
del titolo sportivo della 1° squadra, non sono bastate le rassicurazioni e il sostegno degli Enti Locali (Comune e Provincia) per convincere iPresidenti Donato e Walter Bruno a non desistere. È mancato, come accade spesso nel meridione d’Italia, il sostegno appassionato e generoso di tutte le forze vive della città, imprenditoriali e non. L’intraprendenza degli amanti della pallavolo, tuttavia, continuerà a regalarci “piccole” emozioni: La squadra di pallavolo under 13, vincitrice del campionato di categoria Un gruppo di tifosi del “Taviano Volley” in trasferta a Pisa sempre suscita, in tutti gli sportivi, l’interesse che meriterebbe. Una realtà che si sta affermando è l’associazione Atletica 97, riflesso di un semprecrescente numero di coloro che praticano la corsa. È amaro pensare che a Taviano da ormai un decennio si sia conclusa l’esperienza tennistica, che specie negli anni ’80 e ’90 ha visto accostarsi a questo sport un gran numero di Tavianesi, con la nascita, inoltre, di diverse scuole tennis. Qualcuno oggi ha ripiegato sul ping-pong preferendo indossare, per problemi superabili, casacche di colore diverso dal giallo rosso. Da questa breve e forse sommaria indagine emerge una forte crisi dello sport agonistico ed è spiacevole constatare che a Taviano l’attività sportiva venga praticata solo ed esclusivamente nell’interesse individualista della forma fisica e non come scopo sociale-pedagogico e, perché no, proiettato in una dimensione professionistica. È quanto mai opportuno che specie la Civica Amministrazione, e in particolare l’Assessorato allo Sport, investa con una forte e incisiva azione nelle politiche sportive, non limitandosi a svolgere il semplice compitino che rientra nella sfera delle sue competenze. Ai settori giovanili, poiché su questi bisogna puntare e da qui ripartire, bisogna dare l’opportunità di fare un salto di qualità, investendo su tecnici di alto livello che affianchino chi svolge oggi egregiamente l’attività di avviamento allo sport per ragazzi. Bisogna compiere lo sforzo di uscire dal provincialismo che ci fa raggiungere ottimi risultati nelle fasce di età adolescenziali, ma che poi non si concretizza con la piena realizzazione di questi giovani talenti emergenti. Una città che offre strutture e spazi qualitativamente e quantitativamente superiori alle altre realtà limitrofe (pista di atletica, campi sportivi,
1999/2000 - La squadra di 3^ Categoria del Circolo Amici dello Sport, composta quasi totalmente da giocatori tavianesi, provenienti dal settore giovanile continua infatti l’avventura della squadra di 1° divisione e chissà che i ragazzi non riescano a darci quelle soddisfazioni cui da tredici anni eravamo abituati. Il campo sportivo San Giuseppe anche quest’anno non vedrà il campionato di calcio e sembrano racconti lontani nel tempo, ma non nel cuore, quelli che i “nostalgici” protagonisti del calcio tavianese di ieri continuano a fare, specie davanti al “glorioso” Circolo Amici dello Sport. Una storia che dalle notizie forniteci e dalla documentazione fotografica sembra risalire al 1928 e che è sempre stata caratterizzata da un forte entusiasmo ed interesse. Paradossalmente, di contro, a Taviano il numero di palestre, (circa una decina, escluse le scuole di ballo) con una utenza di circa 1.500 persone, è sintomatico di quanto cresca costantemente il numero di chi pratica sport. In alcuni casi si sono raggiunti ottimi risultati come nel karate, anche se questa disciplina, non rientrando in quelle olimpiche, non
palazzetto dello sport, pallone tensostatico, palestre pubbliche e private, a breve piscina, etc) non può non riuscire a occuparli di valide e qualificanti iniziative sportive. La tradizione dei giochi della gioventù, in cui si sono cimentate intere generazioni di ragazzi, tra l’ammirazione e il sostegno dei coetanei e dei cittadini che assistevano alle gare, ha rappresentato una festa dello sport non solo per la scuola media, ma per l’intera città: oggi è ormai uno sbiadito ricordo ed è forse anche per questo che tra i ragazzi non cresce più la voglia di confrontarsi in una stimolante e sana competizione sportiva (che è prodromo della più dura competizione della vita). Sembra ormai avvicinarsi, nella nostra comunità cittadina, sempre più inesorabilmente e tristemente la notte dello sport. Attendiamo fiduciosi l’aurora di una nuova alba.
Quella che segue è unastoria terrificante. È la storia di uno dei più terribili incubi nei quali si siano svegliati i cittadini londinesi. Una storia che ancora oggi, a 120 anni di distanza, suscita orrore, discussione, dibattiti. E la storia del mostro di Whitechapel, comparso sul finire del 1888 ed autore di cinque efferati delitti ancorasenza risposta. È la storia del serial killer più famoso di tutti i tempi: Jack lo squartatore. A dispetto della nutrita concorrenza di serial killer di cui purtroppo oggi disponiamo, come lo strangolatore di Boston, il macellaio pazzo di Cleveland, il mostro di Charleroi o il nostrano mostro di Firenze, la figura di Jack “the ripper” (lo squartatore, questo il nome che l’anonimo criminale si diede e che utilizzò la stampa) continua a suscitare fascino. Per diversi motivi: per il fatto che luogo di tali efferatezze sia stata la tetra e fuligginosa Londra di fine ‘800, capitale di un impero che sembrava invincibile; per il fatto che numerosi sospetti sui delitti compiuti da Jack siano caduti sulla famiglia reale e, da ultimo, per il fatto che questi sia stato il primo serial killer a sfondo sessuale dell’era moderna. Cinque, infatti, sono state le sue vittime, tutte prostitute e tutte eliminate nello stesso modo, nella stessa zona di Londra, il quartiere di Whitechapel, nell’East End londinese, il posto più malfamato della capitale nel quale si aggiravano barboni, ubriaconi, prostitute; un ghetto, uno squallido tugurio formato da case vecchie e cadenti e da strette e maleodoranti vie. Questo era il regno dello squartatore!
Le prime due vittime furono Mary Ann Nichols, 42 anni, e Annie Chapman, assassinate rispettivamente le notti del 31 agosto e del 7 settembre 1888. Vennero entrambe trovate con la gola tagliata di netto, sventrate e con l’utero asportato. La precisione dei colpi e la conoscenza del corpo umano fecero pensare che l’autore dei delitti potesse avere conoscenze mediche. Del resto diversi testimoni avevano visto le vittime parlottare, prima di essere assassinate, con un uomo alto, distinto, elegantemente vestito: descrizione che rimanda ad una persona altolocata, come poteva essere un medico dell’epoca.
La terza e la quarta vittima si chiamavano Liz Stride e Catherine Edwood, uccise entrambe nella notte del 30 settembre, la prima solo con la gola tagliata (forse perché lo squartatore fu interrotto da testimoni indiscreti), l’altra mutilata come le prime due. Questi orrendi delitti all’epoca ebbero una grandissima eco. Oggigiorno, quando ci imbattiamo in casi così cruenti quasi non ci facciamo più caso, ma nella benestante e puritana Londra Vittoriana l’impressione che suscitarono fu enorme. Il terrore pervase la città, la gente aveva paura ad uscire
per strada, nessuno si sentiva più al sicuro data anche l’incapacità di Scotland Yard di trovare il colpevole. Sembrava che un demonio fosse uscito dalle tenebre per poi, dopo ogni delitto, dissolversi nel nulla. Non solo, ma alla Centrale di Polizia cominciarono ad arrivare periodicamente lettere di sfida dello squartatore, il cui indirizzo di provenienza era From Hell, dall’inferno. L’ultimo delitto fece saltare i quadri dirigenziali della Polizia. Venne commesso il 9 novembre e fu il vero capolavoro dello squartatore. La vittima Mary Kelly, detta la rossa, venne completamente fatta a pezzi in un piccolo appartamento di Whitechapel. Dopo quest’ultima uccisione i delitti improvvisamente cessarono e Jack scomparve per sempre (quanto di meglio potesse chiedere Scotland Yard), inghiottito dalle tenebre da cui era giunto.
Chi era Jack lo squartatore? Qual era il suo vero volto? Cosa lo spingeva a commettere tali brutalità, in quel posto ed a quel modo? Numerosi sono stati gli studi e le indagini compiuti nel corso degli anni. All’epoca dei delitti si riteneva che lo squartatore potesse essere un ebreo (antichi retaggi xenofobi?) dato che sulla scena di uno dei delitti venne trovata una scritta col gesso che diceva: “I giudei non sono uomini da biasimare per nulla”. Ma niente di più probabile che si trattasse di un depistaggio. Negli anni i riflettori sono stati puntati su un certo Walter Sickert, uno stravagante e folle pittore londinese, dai più ritenuto incapace di simili atrocità. Montagne John Druit fu un
altro dei sospettati, un avvocato fallito e poi impazzito che si trovava molto spesso a Whitechapel e venne avvistato in prossimità dei delitti, trovato morto nelle acque del Tamigi un mese dopo l’ultimo omicidio (la qual cosa spiegherebbe l’improvvisa fine dei delitti seriali). Addirittura si è pensato che Jack potesse essere una “lei”, una prostituta in cerca di vendette contro sue colleghe per qualchetorto subito. È indubbio, però, che la teoria più affascinante è quella del possibile “complotto reale”, oggetto anche di un fumetto e di un film di successo con Johnny Deep. Sospettato dei delitti è stato il Principe Alberto, nipote della Regina Vittoria, erede al Trono e morto di sifilide contratta a causa delle sue frequentazioni con tale Annie Crook, una prostituta di Whitechapel. Il Principe, furioso per la malattia contratta (che lo avrebbe, poi, portato a morte) avrebbe voluto vendicarsi infierendo sulla “causa” di quella malattia. Tale tesi, tuttavia, non sta in piedi, dal momento che il principe non aveva cognizioni mediche (e ciò mal si concilia con la precisione delle escissioni procurate alle vittime) e, proprio a causa di quella patologia, non aveva forza sufficiente per commettere quei tremendi delitti. Molto più plausibile, invece, è un’altra tesi. Il Principe Alberto avrebbe sposato (con rito cattolico) Annie Crook, da cui avrebbe anche avuto una figlia tenuta segreta, che, a tutti gli effetti, era erede al Trono britannico. Testimoni del battesimo della piccola sarebbero state le cinque vittime dello squartatore, intime amiche di Annie. Appreso ciò, la Regina ed il Governo avrebbero preso di petto la situazione rinchiudendo in manicomio Annie (dato certo) ed ordinando al medico di Corte (sir William Gull) di eliminare lo scomode testimoni di un evento che rischiava di mandare in frantumi l’Impero (ciò spiegherebbe le modalità dei delitti e la precisione chirurgica dei colpi inferti alle vittime). Probabilmente in questa storia entra in gioco anche la Massoneria, dato che Gull ne era un affiliato (come metà dei membri del Governo). Sui luoghi dei delitti, infatti, l’ispettore incaricato delle indagini, Frederick Abberline, rinvenne diversi indizi che lasciavano pensare a rituali massonici. Secondo alcuni, tale tesi, per quanto la più plausibile, sarebbe troppo fantasiosa. Ancora oggi le indagini continuano. Sono passati 120 anni da quei terribili eventi e Jack the Ripper ancora non ha un volto: probabilmente resterà sconosciuto per sempre ed il mistero continuerà ad avvolgere nel suo alone le morti tragiche di quelle povere donne di strada.
ROBERT JOHNSON, I BLUES BROTHERS, LA PIZZICA SALENTINA E…
Mi è capitato di recente di ascoltare la versione originale del famoso pezzo dei Blues Brothers, “Chicago”, eseguita agli inizi del Novecento con una semplice chitarra da Robert Johnson, che ne è l’autore. Affermo senza indugi che l’ho trovata del tutto scialba e priva di attrattive, se paragonata alla vivacità, alla potenza espressiva ed evocativa del brano reinterpretato da John Belushi e Dan Aykroyd. Mi sono chiesto, fra le tante domande che un’estate oziosa porta con sé, che tipo di operazione è stata compiuta rispetto alla canzone originale. Sarebbe semplicistico argomentare che l’una era accompagnata da un solo strumento, mentre l’altra ha potuto avvalersi di un arrangiamento in cui sono entrati in gioco chitarra e basso elettrico, batteria, tromba, sassofono, trombone e pianoforte. Lo dico pensando ad un pezzo di Lightnin’ Hopkins, “Black Cat”, anch’esso accompagnato da un’unica chitarra, che ti fa alzare pericolosamente la pressione sanguigna anche dopo un singolo ascolto. Evidentemente c’è dell’altro. Se escludiamo la tecnica vocale di Johnson, che è ineccepibile, e il suo modo di accompagnare il blues, perfettamente in linea con gli standard dell’epoca, e se consideriamo, inoltre, che non ha paragoni un’intensità che un autore tende a trasmettere la sua musica con rispetto a quella di qualsiasi altro interprete, qui il rebus rischia di rimanere tale. Dobbiamo,
The Blues Brothers
allora, eisteinianamente spostare la nostra attenzione
sul fattore “tempo”, non inteso, però, come tempo musicale, bensì in un’accezione quasi geologica, come continua stratificazione e sedimentazione di stili, generi, ritmi, contaminazioni, influenze, sonorità. Per fare un esempio, un cantante italiano contemporaneo non si esprimerebbe mai con lo stile di Natalino Otto, per il fatto che nel suo DNA, consapevolmente o inconsapevolmente, sono ormai presenti Elvis Presley oppure Adriano Celentano, Joe Cocker o Fausto Leali. Un gruppo rock che inizi a suonare oggi forse non conosce i Beatles che di nome, ma ci sono molte probabilità che tenda naturalmente a schierare batteria, basso e chitarre come base irrinunciabile per qualsiasi esperimento musicale, esattamente come fecero loro. Per concludere questa prima parte del ragionamento, la versione di “Chicago” dei Blues Brothers risulta così accattivante per noi perché filtrata attraverso l’esaltante esperienza del Rhythm & Blues degli anni Sessanta, perché i fiati sono “segnati” dalle trombe di Wilson Pickett, dai sax di Otis Redding, perché la batteria echeggia lo stile Motown. In quanto fruitori, anche noi siamo pavlovianamente condizionati nel tempo a riconoscere e apprezzare opere che siano in linea con quanto ci ha gratificato in passato. Poi mi è venuto spontaneo collegare la mia tiepida reazione all’ascolto della versione originale di Johnson con l’atteggiamento di sufficienza o addirittura di fastidio di molti amici, musicisti e non, rispetto alla pizzica salentina. Perché anche qui abbiamo, in fondo, chitarre acustiche, tamburelli e pochi altri strumenti rigorosamente unplugged, un sound volutamente “povero”, voci semplici e lineari. Capisco che questo insieme possa sembrare out rispetto all’universo sonoro che si è andato costituendo a partire dalla rivoluzione musicale della seconda metà del Novecento. Sarebbe come se il compianto John
Belushi, nella famosa scena del film “Blues Brothers”, si fosse presentato sul palco accompagnato da un’unica chitarra acustica e dall’armonica sfiatata di Dan Aykroyd. Facile immaginare la reazione dei diecimila spettatori assatanati dalla lunga attesa nella Sala Grande del Palace Hotel: lo avrebbero sbranato. E dunque, la conclusione è una sola: la musica tradizionale locale va riformata, e gli attori di questa operazione non possono che essere gli stessi musicisti salentini che oggi la considerano con diffidenza. Mi permetto di lanciare questo appello dalla colonne de “La Voce” perché considero la questione estremamente urgente. Mi si dice che ormai nelle balere dell’Emilia Romagna la pizzica sta letteralmente spopolando; i festival della “taranta” si moltiplicano in territori del tutto estranei alla cultura salentina; artisti di altre regioni cominciano a introdurre nel loro repertorio i migliori brani della nostra tradizione. Bene. Però tutto questo sa di moda effimera e rischia di durare l’éspace d’un matin. È un’operazione che subiamo, invece di averne il controllo. Per evitare ciò, occorre radicare la nostra produzione popolare all’interno di una trama musicale efficace, attraente e soprattutto appetibile da parte di un pubblico vasto ed eterogeneo. Occorre sfornare pezzi di musica locale moderna in gradodi scalare le classifiche. È impossibile prevedere che caratteristiche avrà il nuovo genere, ma di certo esso sarà come i nostri musicisti sapranno concepirlo. Per evitare mere petizioni di principio, faccio una proposta concreta: mi piacerebbe che un’associazione culturalmente impegnata, ad esempio la “Bachelet”, lanciasse una sfida ai musicisti salentini, ad esempio attraverso un concorso, invitandoli a reinterpretare una canzone tradizionale in chiave contemporanea. Coraggio. Le rivoluzioni possono anche iniziare da un cambiamento nella direzione del vento…
Ma dove sono gli ubriachi di una volta? Ricordo vivamente la figura solitaria, tra comica e patetica, che incontravi certe sere per strada. Malmesso, la barba lunga, poteva chiederti, farfugliando, un fiammifero per la cicca stretta fra le labbra. Oppure lo vedevi mentre si appoggiava a un muro per sfuggire al maligno dondolo della Terra, lo sentivi distillare un filo di allegria da rauchi brandelli di canzone. Qualcuno, come ispirato, parlava alle stelle, aspettando caparbiamente la risposta. Persone inoffensive, tartassate dalla vita e ingannate dal vinaccio ingerito in una bettola (ce n’erano, a Taviano, in via Matteotti). Emarginati, cari ai poeti come se custodissero il segreto di una illusoria libertà. Altri tempi, oggi tengono campo altri ubriachi. Non sono vecchi relitti, ma uomini maturi che hanno una famiglia o un lavoro, giovani e giovanissimi che escono in compagnia dalle discoteche dopo essersi storditi, senza apparente necessità, col rumore di una musica assordante e con intrugli alcolici alternati alla droga. Di condizione non miserevole e spesso agiata, possiedono auto con le quali, grazie all’ebbrezza aggiunta della velocità, si avventano sulle strade a seminare morte.
Predisposti, in quanto ubriachi, a diventare potenziali suicidi ed assassini. Il bilancio delle vittime, in ogni fine-settimana
o festa comandata, è terrificante (a mero titolo d’esempio si ricordi l’incidente occorso in agosto nei pressi di Nardò, in cui perirono sette giovani). E, come capita davanti ai fenomeni di novità dirompente, le reazioni tendono ad appiattirsi sulla deprecazione o il lamento; le autorità si mostrano impreparate e restie ad assumere efficaci provvedimenti. Che senso ha la semplice sospensione della patente per un uomo sorpreso al volante fradicio di alcool, che dopo il “condono” tornerà ad ubriacarsi e, una volta o l’altra, ad uccidere? Giusta l’idea di tipizzare una specifica ipotesi, più grave, di omicidio colposo, ma bisognerebbe ricorrere, nei casi più gravi di ebbrezza, al ritiro definitivo del permesso di guidare. Imparino - sanzione severa, ma adeguata - a servirsi del mezzi pubblici e ad andare a piedi! In fondo è anche l’eccessiva salvaguardia dell’uomo motorizzato, che tradisce una feticistica passione per l’automobile, a dimostrare quanto sia malata la nostra società. Che differenza fra ieri e oggi! È il caso di chiedersi: si stava meglio trenta-quarant’anni fa, o si stava peggio? La società attuale - mi rincresce dirlo - è angustiata da un malcelato senso di insoddisfazione ed assoluta carenza di valori. Di chi la colpa? Ai posteri l’ardua sentenza!
Ed ora? L’estate 2008 sta per abbandonarci ed i dati relativi agli arrivi ed alle presenze turistiche (depurati da interpretazioni interessate) ci consegnano un verdetto unanime: la peggiore stagione turistica da decenni a questa parte! L’incertezza economica ha spinto gli Italiani a contenere i costi delle vacanze: il periodo di soggiorno medio si è ridotto drasticamente con concentrazione nei fine settimana e la percentuale di chi ha dovuto rinunciarvi completamente è salita, in un anno, dal 34 al 49%. A questo dobbiamo aggiungere il dato considerevole di quanti hanno preferito altre destinazioni rispetto al Salento nonostante i notevolissimi sforzi di promozione compiuti fino ad oggi. Ed ora? È una domanda che dobbiamo porci immediatamente tutti (operatori turistici, amministratori pubblici, esperti e semplici cittadini) senza indugio e senza lasciar passare del tempo prezioso per le decisioni da prendere e per i provvedimenti da adottare. Parlarne tra qualche mese, alle porte della prossima stagione turistica, sarebbe tardivo ed inutile con il rischio di non avere più il tempo di individuare soluzioni adeguate o di attuarle. La crisi economica che stiamo attraversando è la causa più evidente di questa situazione, ma non può e non deve servire da alibi per eludere una seria e ragionata discussione su altre cause che vengono da lontano e che, da tempo, sono conosciute. Volendo iniziare da un contesto nazionale balza subito evidente la mancanza di attenzione politica per un settore che dovrebbe essere trainante per la nostra economia (testimoniata dall’abolizione del Ministero per il Turismo e dal cronico non funzionamento dell’ENIT) e che ci ha fatto perdere terreno nei confronti di competitori diretti quali Spagna, Francia, Croazia e Grecia solo per rimanere in ambito europeo. Pensiamo, per esempio, alla mancanza di una qualunque forma di coordinamento nazionale a livello di promozione turistica e pensiamo alla differenza di aliquote iva che ci vedono penalizzati nei confronti di Francia e Spagna. Se passiamo, poi, ad un livello regionale e locale, sul quale possiamo influire con maggiore immediatezza, gli argomenti di riflessione sono numerosi e chiamano in causa direttamente la classe imprenditoriale alla quale appartengo, i pubblici amministratori ed una consistente fascia di cittadinanza che non ha ancora acquisito la convinzione della insostituibilità del comparto
turistico come fonte di reddito diretto ed indiretto per l’economia del nostro territorio. Per quanto riguarda gli imprenditori è necessario, innanzitutto, puntare ad un offerta di qualità qualunque sia il target di clientela a cui ci si rivolge, in secondo luogo contribuire a sviluppare nelle aziende turistiche quella cultura dell’accoglienza e dell’ospitalità già propria dei Salentini ed infine, ma non
per ultimo, convincersi definitivamente che solo ragionando ed operando in termini di sistema- territorio e non più di singole imprese si possono sostenere e vincere le sfide di un mercato globale. Per quanto riguarda, invece, la pubblica amministrazione, efficiente nella promozione del territorio, stupisce la mancanza di determinazione nell’affrontare i problemi fondamentali dei trasporti e della pulizia delle spiagge e, persino, di alcuni paesi. Problemi, questi, che hanno un’influenza notevole nella scelta del luogo “ideale” dove trascorrere le vacanze da parte dei turisti. Sono sempre più rari e difficoltosi i collegamenti tra le principali città nazionali ed europee e l’aereoporto di Brindisi
o la stazione di Lecce; sono al limite della non fruibilità i collegamenti tra l’aereoporto di Brindisi o la stazione di Lecce e le principali località turistiche salentine; sono, infine, inesistenti le possibilità di spostarsi sul territorio per chiunque non sia dotato di un auto propria. Le spiagge non gestite da privati sono praticamente infrequentabili per la mancanza di un servizio di pulizia e di un servizio salvataggio. Alcuni paesi sono un esempio di quanto possa non funzionare il servizio di raccolta dei rifiuti e di pulizia delle strade. Al contrario, è stata evidente la determinazione con cui sono stati adottati dei regolamenti e delle leggi con cui rendere sempre più difficoltosa se non impossibile la gestione di un’attività turistica da parte di privati. Leggi e regolamenti che sembrano nascere da una pregiudizievole convinzione che chiunque operi in questo settore miri a conseguire ingiustificati guadagni e rappresenti un attentato alla salvaguardia dell’ambiente ed in generale dei diritti dei cittadini. Per quanto riguarda, infine, quella parte di cittadinanza ancora poco o niente convinta di quanto fondamentale possa essere il comparto turistico per la crescita della nostra economia e, quindi, della nostra ricchezza, occorrerebbe aprire una riflessione su quali potrebbero mai essere i settori produttivi in condizione di sostituire quello turistico in termini di produzione di reddito diretto ed indiretto e su quali potrebbero essere le conseguenze per il territorio e per noi tutti se venisse gradualmente a mancare, nel nostro, Salento il flusso di denaro che il turismo porta. Questa riflessione aiuterebbe, forse, a valutare differentemente l’arrivo e la presenza dei turisti, il lavoro di chi opera in questo settore e l’operato delle pubbliche amministrazioni in questo campo. Ed ora? Parliamone adesso o rischiamo di perdere tempo prezioso e di sprecare opportunità forse irripetibili.
Verdini, per chi non lo conosca, è un deputato del PDL che tanta parte ha avuto nella composizione della compaginegovernativa. È sua la formula che ha permesso di distribuire le postazioni governative in base ai rapporti di forza tra i partiti confluiti nel PDL e tra questi e la Lega. Un lavoro ben fatto, a sentir gli elogi che gli sono piovuti addosso. Anche se, bisogna dirlo, un pò avrà pure copiato. Prima di lui, con gli stessi compiti, c’è stato il mitico Massimiliano Cencelli che, nell’era della Balena bianca, con i suoi algoritmi, permetteva di conferire le cariche pubbliche in base al peso delle correnti che articolavano il partito (il celebre manuale Cencelli). Bene, l’on. Verdini, nel corso di un’intervista, alla domanda del giornalista che gli chiedeva quando sarebbe stato rimosso il macigno del conflitto d’interesse in capo a Berlusconi, rispondeva soavemente: “Non credo che il conflitto di interesse sia un problema per gli Italiani. E se aumentiamo di cento Euro la loro busta paga se ne scorderanno completamente.” Credo che abbia ragione: una fotografia più nitida e sincera di noi Italiani è difficile ottenere. L’espressione di Verdini ritrae al meglio l’insignificanza di un popolo privo di senso civico, pronto a ingoiare qualsiasi amarume per qualche euro in più. Un popolo con un passato discutibile e un futuro improbabile: se gli togli la partita di pallone, il telefonino, la televisione e la macchina lo condanni all’infelicità eterna. Gli anticipi in questa vita la sorte che gli tocca nell’altra. I superficiali, gli ignavi, i fanfaroni, i menefreghisti li ritrovi ovunque, in tutti i paesi del mondo, ma non nella concentrazione presente da noi. La loro influenza è tale che, oramai, in Italia, la democrazia è solo un fatto numerico, un semplice conteggio dei voti. Ci autoproclamiamo i più furbi del mondo (tutto un filone di barzellette, “Ci sono un inglese, un tedesco e un italiano”, è lì a testimoniarlo); in quanto a conoscenza non abbiamo rivali (“Il più fesso conosce sette lingue”); ci sbrodiamo di mille vanterie in ogni campo; e allora come mai stiamo così male? STUPIDO BLUFF RETROMARCIA di Alfonso Mele
LA COMPRAVENDITA IMMOBILIARE La realtà sociale del Salento, nel campo delle compravendite immobiliari, è ancorata alla storica figura del “sensale di piazza”, che svolge principalmente il ruolo di acquisizione di un bene altrui per poi rivenderlo almaggiore offerente. È, in sostanza, un lavoro di intermediazione sempre di parte, non paragonabile all’attività svolta dall’agente immobiliare serio, che invece si limita a curare la mediazione tra le parti. Ancora oggi in molti, convinti di essere in buone mani, ma in realtà rischiando i propri averi, si rivolgono al “sensale”, figura non legalizzata, presente solo nel meridione d’Italia. D’altro canto è risaputo che il “sensale” non sempre è iscritto all’albo degli agenti immobiliari, anzi spesso svolge un’altra attività lavorativa, violando così le disposizione della l. 30/1989. Il “sensale”, mai esposto in prima persona, promettendo benefici, incassa importi in nero, a discapito del malcapitato e dei cittadini onesti che sono in regola col fisco. La trattativa è priva di qualsiasi regola di trasparenza, allo scopo, spesso, di nascondere la realtà alle parti e magari approfittare delle difficoltà economiche altrui. A volte, invece che al “sensale” ci si rivolge ad “amici” di famiglia, o conoscenti, che (mossi da intenzioni non sempre disinteressate) si improvvisano procuratori d’affari, con conseguenze spesso disastrose. È necessario allora, per evitare di incappare in “spiacevoli inconvenienti”, affidarsi ad un professionista di riconosciuta serietà, iscritto all’albo degli agenti immobiliari. Un serio agente immobiliare media la trattativa tra la parte venditrice e la parte acquirente nella compravendita immobiliare agendo sempre con trasparenza; conosce bene il mercato e la sua evoluzione, quindi attribuisce agli immobili il giusto valore, senza mai illudere la parte venditrice solo per acquisire l’incarico; consiglia, promuove e cura sempre gli interressi di entrambi i contraenti, senza mai essere di parte; percepisce un onere di mediazione del 2 % + IVA, ed emette sempre una regolare fattura a conclusione della trattativa. Sicuramente non è facile migliorare la situazione nel campo delle compravendite immobiliari, ma conoscere queste informazioni può servire a prestare maggiore attenzione nella cura dei propri affari. Americo Parlati
L’estate sta finendo, e con essa finisce anche un fenomeno della bella stagione salentina: le sagre. In questi ultimi mesi abbiamo assistito ad una spettacolare gara al rialzo nelle invenzioni gastronomiche spacciate per prodotti tipici: con un crescendo da fare invidia al Bolero di Ravel, si è passati dai banalissimi paparussi rrustuti alle più ricercate purpette te purpu, sino ad arrivare, addirittura, alla trippa ccu lu sucu, talmente esclusiva da contare circa 3 estimatori in tutta l’area del Grande Salento. Esaurita tutta la serie degli ortaggi e delle paste fatte in casa, per differenziare la propria sagra da quella organizzata la sera prima a 2 kilometri di distanza, in una marina dell’Arco Ionico si è proposta la sagra della fonduta valdostana, servita da avvenenti fanciulle vestite da montanare che cantavano Heidi con lo splendido sfondo di un tramonto sul mare. Immediata è arrivata la risposta della Pro-Loco di un comune limitrofo che ha lanciato una spettacolare sagra della polenta concia con gli osei, tra cori di alpini avvinazzati e bandiere del Sud Tirolo. Un gruppo di turisti olandesi ha inscenato una manifestazione di protesta davanti al Municipio per non aver ottenuto il patrocinio per la sagra dell’erba (pare che al sindaco la proposta era sembrata troppo fumosa). Godibilissima è stata, poi, la serie di sagre dedicate alla pitta di patate, che ha visto contrapporsi decine di iniziative che differivano solo per il nome dell’autrice della ricetta: ta ‘Nzina, ta zi’ Uccia, ta nonna Martina, ta cummare Gina, ta mamma Pippi, e così via; ci sono stati anche momenti di tensione per i tafferugli scoppiati tra i clan familiari a sostegno della ricetta della propria massaia di riferimento. Qualcuno ha avuto il colpo di genio di dare una veste storico-culturale alla sagra del proprio quartiere, denominandola sagra dei sapori di ieri; subito, a raffica, sono partite la sagra dei sapori dell’altro ieri, quella dei sapori di una volta, quella dei sapori antichi, quella dei sapori antichissimi; per poco non si è arrivati alla sagra dei sapori preistorici con braciole di dinosauro e polpette di mammuth. Un capitolo a parte meriterebbero i gruppi musicali chiamati ad animare le serate che, dietro nomi incomprensibili (il “griko” è d’obbligo), nascondevano due tamburellisti minorenni ed un chitarrista esperto solo nel “giro di DO”, ma capaci di fracassare i timpani (e non solo quelli) a tutti i villeggianti nell’arco di 50 kilometri. Tutto questo bailamme di odori e suoni (o di puzze e rumori, fate voi) ha indotto alcuni residenti di una marina sullo Ionio ad organizzare la sagra del digiuno e del silenzio: nel luogo prescelto, all’ora stabilita, non c’era musica, non c’era niente da mangiare e non c’era anima viva. Secondo gli organizzatori, anche essi rigorosamente assenti, è stato un successone; secondo la Pro-Loco, un flop memorabile. Questione di punti di vista.
“Ci stasira u tiempu è beddhu ne truvamu, amici e amiche, ssutta u Conte, allu caseddhu, ppe lla sagra te le fiche”. U mumentu ormai è bbanutu ccu me fazzu nna cultura, finche mmoi aggiu canusciutu sulu a Fica ta Signura. Nc’è nn’amicu meu furese ca me tice te trent’anni: “E nu ssai a Massafrese o a Carpignana San Giuvanni”. Sentu tire puru a’ngiru ca nc’è tantu te ‘mparare: ci stasira ccappa a tiru oiu mparu e Culummare. O sino’ nnu Frecazzanu, quiddhu Russu o quiddhu Iancu, ci me vene ssutta manu ccu llu ssaggiu nun ci mancu. E nc’è puru a Fica Inglese: m’annu tittu amici mei, ca la provi e ppe nnu mese vai ticennu sempre “Occhei!” Me piacìa ccu trou nna scusa, topu ssaggiu una te quiste, ccu prou puru nna Pilusa o nna Ianca te Caddhiste. Nu mme pare invece u casu ccu prou quiddha Fecondata, percè certu nn’addhu nasu, ieu me pensu, l’ha ‘ndurata. Nc’è u Culummu e llu Bbruficu ca su cchini te sorprese: ccu ddhi nomi… ma, oiu ddicu… … ssia me trou alle stritte prese! Meju a Fica ta Pumpea, o te l’Alba, o quiddha Ottata, ca problemi nu tte crea egg’è dduce e zzuccarata. Mo’ ccu ppenzu alla poisia m’aggiu persu intra nna ruddha, ci nu ttrou te capu a via nu nne ssaggiu propriu nuddha. Anzi a sorta mia, maligna, ca me crepa a tutta forza, face ttrou nna Ficaligna, e pper giunta ccu lla scorza. A SAGRA TE FICHE
Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero:
Don Salvatore Barone, Marinella Cacciatore, Elisa Calzolaro, Giuseppe Cassini, Margherita Coppola, Lorenzo Corchia, Dante Coronese, don Albino De Marco, Marzia Lezzi, Maurizio Lezzi, Carlo Longo, Laura Lupo, Nello Martina, Alfonso Mele, Americo Parlati, Luigi Portaccio, Vincenzo Portaccio, Paola Ria, Stefano Ria, Germano Santacroce, Roberto Tanisi, Donato Tanisi, Gino Trianni, Leonardo Tunno, don Fernando Vitali ed inoltre... Agent Fox M., Robin Hood, Trilli
La Redazione ringrazia gli inserzionisti che hanno reso possibile l’uscita di questo numero e il Dott. Enzo Benisi per la sensibilità dimostrata.
il solito giornaletto filo amministrazione comunale. anche se scrivete di jack lo squartatore o di sindaci sceriffi o di turismo siete sempre voi! e l'attacco all'assessore d'argento nell'articolo di corchia? patetici. e ridicoli!
Da un rapido sguardo (specifico non lettura attenta, almeno per il momento), il giornale mi pare ricco di contenuti, certo migliorabile, e comunque assolutamente non filo governativo...!Anzi!Certo lo stesso andrebbe valutato anche giudicandolo sulla grafica, impaginazione, scelta di immagini, ecc, ma purtoppo qui sul blog non è possibile. Saluti e complimenti per il blog. Zeus
Ho letto l'editoriale ed è un chiaro attacco alle politiche nazionali, Ho letto della manifestazione Chloris e c'è una stoccata all'assessore , ho letto del Palazzo de Franchis e ne vengono riconosciuti i meriti a tutti, ivi compreso Tanisi, ho letto l'articolo sullo sport e vi è un attacco alle politiche sportive di questa maggioranza, ho letto la rubrica sulla stagione estiva e si da più spazio alla minoranza con un consigliere d'opposizione e uno candidato nella lista Tanisi. Il fanatismo in certa gente ne offusca la mente ...e li rende ridicoli...
ho potuto leggere gli articoli de "la voce" e sono rimasta colpita positivamente perchè: - a taviano ci sono tante Associazioni, molte delle quali pseudo-culturali (che nascondono chiare finalità di altro genere...) ed è positivo che l'Associazione Bachelet faccia promozione culturale anche attraverso un periodico che non si limita alla cronaca spicciola, finalizzata al chiacchiericcio e alla polemica da marciapiede, ma che si presenta ricco di idee e contenuti, condivisibili o meno, ma counque apprezzabili; - la pagina della memoria civile, oltre che per la firma autorevole, è un approfondimento che, specie tra i giovani, andrebbe coltivato; - "uno sguardo indietro è una pagina originale, che porta alla ribalta quella che è la storia fatta da grandi e piccoli uomini e di grandi e piccoli avvenimenti, meritevoli di essere ricordati; - bella l'idea del forum: apre un confronto sereno e libero (cosa che si propone anche questo blog, grazie all'impegno del gestore); i pr5otagonisti mi sembrano ben scelti, e rappresentativi del tessuto sociale della città; alla redazione de "la voce" chiedo di continuare su questa strada e di arricchire il giornale con idee sempre nuove e originali. una critica: un pò in tutti i numeri non si fa riferimento ai problemi ambientali, della città e non. istrice
38 commenti:
ESTATE FREDDA, AUTUNNO CALDO
Pechino, domenica 24 agosto, ore 21,30 (le
15,30 italiane): si spegne il fuoco olimpico e
cala il sipario sui giochi della 29^ Olimpiade.
Sedici giorni durante i quali atleti di tutto il
mondo si sono affrontati per la conquista di
una medaglia, per acquisire notorietà, per
mettersi alla prova, anche solo per partecipare
(la maggior parte), secondo il più puro spirito
olimpico, quello voluto dal barone De
Coubertin. La televisione ci ha restituito le
immagini dei loro trionfi e delle loro sconfitte,
la gioia e l’emozione per risultati al limite
dell’umano (come quelli dell’americano Phelps
o del giamaicano Bolt), ma anche il dramma
e la disperazione per sconfitte reputate ingiuste
o, comunque, non preventivate.
Il bilancio italiano è stato lusinghiero, ma non
esaltante: come spesso accade le delusioni più
grandi sono giunte da quegli atleti che (a torto,
evidentemente) si ritenevano più da medaglia.
Ci siamo comunque emozionati dinanzi alle
urla della Vezzali, alle lagrime della Pellegrini,
alle smorfie di Schwarzer (dovute al dolore e
alla fatica, dopo 50 Km di marcia), alla calma
olimpica di Cammarelle, che cantava a
squarciagola l’inno di Mameli: “dov’è la
vittoria le porga la chioma che schiava di
Roma Iddio la creò”, mostrando di
comprenderne appieno il significato, a
differenza di quel ministro leghista, digiuno
di storia patria, che agli stessi versi, ha mostrato
il dito medio alzato perché - testuale - “il nord
non sarà mai schiavo di Roma”. Miserie che
non meritano commento, come non merita
commento l’affermazione del senatore
Borghezio, per il quale la vittoria della
Pellegrini avrebbe dimostrato la superiorità
etnica della razza padana (sic!).
Ma le immagini dei trionfi olimpici e la
perfezione della macchina organizzativa messa
in mostra dalla Cina, non hanno, tuttavia,
eliminato il “freddo” (non meteorologico) di
questa estate che volge al termine: la
repressione di ogni forma di dissenso e la
spietata reazione cinese contro ogni conato di
libertà del popolo tibetano; le numerose vittime
civili dei bombardamenti alleati in Afghanistan,
infine le (poche) drammatiche immagini della
guerra russo-georgiana ci restituiscono un
mondo dove, ancora una volta, l’uomo appare
“homini lupus”.
Quella che più preoccupa è, però, l’escalation
della tensione nei rapporti fra Russia e Stati
Uniti e i toni da “guerra fredda” che ritenevamo
archiviati con la caduta del muro di Berlino.
Non è così, evidentemente, e le pretese russe
su alcune regioni georgiane, strategicamente
importanti perché vi passano gli oleodotti che
portano in occidente il petrolio e il gas russi,
non sembrano portare nulla di buono.
“L’umanità metta fine alla guerra, o la guerra
metterà fine all’umanità”, ammoniva quasi
cinquanta anni fa il Presidente John Kennedy
ed il monito è valido ancor più oggi che nuove
potenze, anche nucleari, si affacciano sullo
scacchiere internazionale ed aspirano ad un
ruolo di leader, forti di un’economia in piena
espansione (è il caso della Cina) o della
presenza sul loro territorio di grandi giacimenti
di petrolio (l’Iran).
Ma non sono solo gli scenari internazionali a
preoccupare.
In Italia (che sul piano internazionale conta
come il “due di briscola”) preoccupano
soprattutto la crisi economica, sempre più
grave, e le idee di riforma dello Stato che
albergano nella mente del nostro Legislatore.
Che la crisi economica sia grave, se ne sono
accorti un po’ tutti, anche il Ministro
Tremonti, che, pur escludendo
rischi di recessione,
ha individuato,
come presunta
responsabile di
tutto, la
globalizzazione.
Ancora più
pessimisti paiono,
però, alcuni grandi
economisti come il
Governatore della
Banca d’Italia,
Draghi, o quello
della Federal Riserve
americana, Bernanke,
per i quali il rischio
recessione - figlio di
un’economia globale da
cui non si può comunque
prescindere - è assolutamente concreto, se non
addirittura in atto. In questo contesto, cosa
deve dire, o pensare, il precario italiano che
riesce a racimolare (quando ci riesce), sì e no,
1.000 euro al mese? Quali possono essere le
sue prospettive future?
A fronte di ciò il nostro Premier, che non ha
i problemi economici degli operai o dei precari,
forte del successo (?) di Napoli, sprizza
ottimismo e ritiene che altre siano le vere
priorità, prime fra tutte la riforma della giustizia
ed il federalismo (ma, alla luce dell’esperienza
di questi ultimi anni, è lecito pensare che esse,
più che alla modernizzazione del Paese, mirino
a “ regolare i conti” con vecchi nemici, si tratti
della Magistratura o del Mezzogiorno d’Italia,
considerato dalla Lega come una specie di
vampiro che succhia il sangue del Nord). Per
fare tali riforme, tuttavia, è necessario
modificare profondamente la Costituzione,
operazione piuttosto difficile senza il
concorso dell’opposizione (anche
perché, senza maggioranza qualificata,
le eventuali modifiche debbono
passare attraverso un referendum
popolare, i cui esiti, come già nella
penultima legislatura, non sono certo
scontati). A parole tutti dicono di
volere il dialogo, nei fatti ci si
comporta come se la controparte
non esistesse. Sarà, comunque, la
volta buona per vedere se c’è
ancora, in Italia, un’opposizione
degna di questo nome (come
invocato dall’ex-Presidente
Scalfaro).
L’autunno, a differenza
dell’estate “fredda”, si
annuncia, invece, piuttosto
“caldo”.
Pag. 2
Rubrica a cura di don Salvatore Barone
IL SORRISO, LINGUAGGIO UNIVERSALE
La parola non è l’unico codice comunicativo.
Ve ne sono altri, talora più efficaci dello
stesso linguaggio verbale. Tra questi il più
compreso e apprezzato è il sorriso.
Il sorriso è un linguaggio universale che non
ha bisogno di interpreti, di traduttori.
Pensate.
In America fischiare è segno di
approvazione. Da noi, di disapprovazione.
In Cina sputare davanti ad una persona non
è ritenuto offensivo, anzi, altamente
rispettoso. Da noi, è da maleducati.
In Giappone reclinare il capo e dondolarlo
lentamente con gli occhi chiusi mentre si
ascolta un discorso, è segno di
concentrazione. Da noi è segno di noia.
In Italia ruotare un dito contro la guanciasignifica, normalmente: “É buono”, oppure:
“É bello”. In Germania, con un gesto del
genere potreste farvi dei nemici; infatti indica:
“É matto!”.
Per mostrare la propria ammirazione nei
confronti di una ragazza, un arabo si
accarezza la barba, un brasiliano fa finta di
costruirsi un cannocchiale con le mani, un
greco fa finta di allungarsi il volto, perché
nell’antichità il volto oblungo era considerato
molto carino. Insomma paese che vai, gesti
che trovi.
C’è un solo gesto che è capito dappertutto,
dalle tribù primitive ai grattacieli di Tokyo.
Un gesto che può aiutare molto a risolvere,
in ogni angolo del pianeta, situazioni difficili,
a dissipare le tensioni e a trovarsi subito
d’accordo.
Il gesto universale e miracoloso è il sorriso!
Il sorriso è il primo diritto del figlio.
Non è stato lui a chiedere di nascere, dunque
non è giusto che incontri un mondo inospitale,
visi torvi, facce di traverso.
Vivere con facce oscure è la peggiore delle
torture. Tutti i competenti concordano nel
dire che, subito dopo il gusto del latte, il
bambino deve provare il gusto della vita.
“La gioia, per il bambino, è importante come
il pane e la conoscenza, se non di più”. I
piccoli sentono la gioia come la cosa più
naturale, la cosa più loro.
È incredibile la valenza pedagogica di un
sorriso. La gioia è educativa per natura sua:
ci migliora sempre, mentre la tristezza ci
peggiora sempre.
Il sorriso cambia l’aria che
ci circonda, crea
un’atmosfera lieve, dolce,
calda, serena. In una parola:
buon riso fa paradiso!
BADEN POWELL, il
fondatore dello scoutismo,
notava che “Un sorriso fa
fare il doppio di strada di
un brontolìo”, e
aggiungeva: “Fino a
qualche tempo fa ho
creduto nella verità del
detto “un bastone e un
sorriso possono far
superare qualsiasi
difficoltà”, ma poi la mia
ulteriore esperienza mi ha
rivelato che, in genere, si
può lasciare a casa il
bastone”.
Ridere è da intelligenti.
Ridi e il mondo riderà con te. Piangi e ti
bagnerai soltanto! Ridere è da buoni.
Nella sua limpida saggezza Madre Teresa
di Calcutta affermava: “Non capiremo mai
abbastanza quanto bene è capace di fare un
semplice sorriso”. Con Madre Teresa
concorda Roberto Benigni, il quale in
un’intervista ha confidato: “Vorrei tanto
essere un clown, perché è l’esperienza più
alta di benefattore”!
Una parabola, tratta dal Talmud racconta.
Rabbi Baruk si recava spesso nella piazza
del mercato. Là un giorno gli apparve il
profeta Elia e Baruk gli chiese: “Fra questa
gente c’è almeno uno che avrà parte nel
mondo futuro?”. Elia rispose: “Nessuno!”
Più tardi in piazza si presentarono due uomini
ed Elia, vedendoli, disse a Baruk: “Ecco,
costoro avranno parte nel mondo futuro”.
Baruk incuriosito chiese loro: “Qual è la
vostra professione?” Risposero: “Siamo
buffoni. Quando vediamo qualcuno triste lo
rassereniamo, quando vediamo due litigare,
cerchiamo di farli riconciliare”.
Ridere è da esperti. Il sorriso è la distanza
più breve tra due persone!
In un mondo così aggressivo è indispensabile
distendere; tra gente incupita ed egoista
bisogna far cadere il raggio di un sorriso;
in una società litigiosa e insoddisfatta è bello
aprire un piccolo squarcio di sereno;
in un tempo in cui si misura tutto sulla
produttività e sulla resa economica, si deve
lasciare spazio al gratuito e al riposo.
L’uomo, e ancor più il sacerdote, che pratica
il sorriso arriva là ove anche le parole più
pensate e più studiate non arrivano: arriva
ad abbracciare un’anima!
Illuminante questo proverbio orientale:
“Il sorriso è una luce che s’affaccia sulla
finestra del volto e annuncia che il cuore è
in casa”.
Don Salvatore Barone
IL DESTINO, L’UOMO E… LA FOLLIA
Quando si dice il destino! A “don Otello”,
di antica e nobile schiatta, il FATO concesse
la pia missione di chierichetto, che lui,
indossato il merlato candido camice, accettò
di buon grado, e con amore e devozione se
la “tirò” avanti per tutta la vita.
Fu chierichetto “in servizio permanente
effettivo” e svolse il suo mandato sia d’infante
che da giovinetto, sia d’adulto che d’anziano
con grande puntualità, consapevolezza,
abnegazione. Colonna portante di tutti i riti
sacri: accenditore e spegnitore di ceri, vigile
attento della “pila dell’acqua santa”, onesto
e solerte accattino, abile suonatore di campane
a funi, maestro fiatatore di
turiboli. Al celebrante dosava
l’acqua con un po’ di vino, e
quando il prete “alzava in
cielo” il calice, suonava dolce
il campanello e con tre colpi
rimbombanti al petto
mandava a quel paese il
diavolo e tutto il suo contorno
(entourage).
Quando si dice l’uomo!...
Punto da inopportuna
vaghezza, volle, l’uomo,
verificare la veridicità di
quell’antico motto che
affibbia la croce più grossa
al monaco più ingenuo e
siccome don Otello ingenuo
(ma anche beato) lo era per
davvero, senza pensarci su
più di tanto, prese la croce
più grossa e gliela buttò
addosso, gratificandolo del titolo di
“CAPOCRUCIFERO” di tutte le congreghe
locali.
Otello, però, oltre che ingenuo era, purtroppo,
afflitto da una piccola dose di follia, che lo
rendeva imprevedibile nella vita di relazione.
Agli stimoli esterni poteva talvolta rispondere,
reagendo in maniera imprevista ed
incontrollata. È quanto accadde quel caldo
pomeriggio di metà luglio…
Quando si dice la follia!...
…Apre il mesto corteo funebre la grande
croce di Otello, alla quale fanno ala i “fratelli”
dal mantello celeste che recitano
Disegno del Prof. Nello Martina
incomprensibili giaculatorie alle quali, quando
ne ha voglia, don Otello risponde “AMEN”.
Segue il feretro di colui che ormai non c’è
più una “ridda” di parenti disperati, con la
barba nera e incolta, con lunghi capelli
arruffati al vento, che cercano di comprimere
il loro immenso dolore in pesanti cappotti
col bavero alzato ed in grandi scialli di lana
caprina fatti a mano, a suo tempo, dalle mani
della mamma di mamma loro... Chiude il
corteo una folla di amici, conoscenti e curiosi,
che “afflitta e sconsolata”, partecipa al grande
dolore dei familiari dello scomparso,
raccontandosi a voce più o meno bassa “casi”
propri e “casi” altrui, con un
pissi-pissi contagioso e
coinvolgente che, quale coltre
di velluto scuro, sembra
avvolgere tutto: uomini e
cose, condolenti e
partecipanti, Otello e
“fratelli” dal celeste mantello.
…Come fulmine a ciel
sereno, una voce maligna e
misteriosa grida: “OTELLO!
CORNACCHIA!
PROFICO!...POH,
POH!…”. È un attimo ed è
anche la metamorfosi del
nostro Otello: da
“CROCIFERO” si trasforma
in “CROCIATO” e… croce
in resta corre alla disperata
ricerca del “FETENTE
SALADINO”!
Gino Trianni
VALORI E DISVALORI (IN UN GIORNO DI MEZZA ESTATE)
Venerdì 18 luglio, Mancaversa, giornata molto
calda, mare calmo. Un uomo sta facendo il
bagno, in un luogo un po’ isolato, quando, forse
a causa di un malore, rischia di annegare. Una
donna sugli scogli lo vede annaspare ed allerta
i suoi due nipotini, un ragazzino ed una ragazzina
di 13 e 11 anni. Costoro, senza pensarci su, si
buttano in acqua e grazie ad una tavoletta danuoto, lo traggono a riva. È in grande difficoltà,
perché, nonostante si sia trattato di attimi, ha
bevuto molta acqua. Viene adagiato su un fianco
ed aiutato a rimettere. Qualcuno chiama il 118
e nel breve volgere di pochi minuti è trasportato
all’ospedale di Gallipoli. La sua situazione è
subito critica, ma grazie al prodigarsi di medici
e infermieri, l’uomo si salva e dopo pochi giorni
è restituito alla sua famiglia e ai suoi affetti.
Quell’uomo è mio padre e deve la sua vita al
coraggio e alla prontezza di due ragazzini e di
alcuni bagnanti ed alla professionalità dei sanitari
dell’ospedale di Gallipoli, cui va il mio pubblico
“Grazie”.
Sabato 19 luglio, spiaggia di Torregaveta,
litorale napoletano. Giornata afosa, mare
I cadaveri delle due sorelline Rom.
leggermente mosso. Due sorelline Rom
giungono in spiaggia per vendere le loro povere
chincaglierie, calamite colorate da attaccare al
frigorifero.
Ad un certo punto, per il molto caldo, una di
esse entra in acqua. Non sa nuotare e, in un
attimo, è preda delle onde o del fondale infido.
La sorellina se ne accorge e, senza pensarci su,
si getta in acqua, nel tentativo di soccorrerla.
Anche lei, però, non sa nuotare ed è vinta dalle
onde. Dopo pochi minuti il mare restituirà i
corpi di quelle piccole, povere vittime.
Resteranno ben tre ore sul litorale, a mala penacoperte da un telo da spiaggia. È normale, in
casi come questo, attendersi nei presenti
angoscia, dolore, sgomento, vedere persone che
non sanno darsi pace: in fondo si sono
tragicamente consumate due giovanissime
esistenze. Invece intorno a quei poveri corpi
regna, sovrana, l’indifferenza: chi si spalma di
crema, chi continua a prendere il sole, chi
smanetta su un cellulare. “Girarsi dall’altra parte
può essere più devastante degli stessi eventi che
accadono”, ha tuonato il Cardinale di Napoli,
Crescenzio Sepe e il giornale inglese The
independent ha pubblicato in prima pagina quelle
foto con la significativa didascalia: “L’immagine
che fa vergognare l’Italia”. Ma siamo sicuri che
gli italiani, oggi, si vergognano? Qualche dubbio
è legittimo: in fondo non si trattava che di Rom,
“figlie di un Dio minore”, a ben vedere non ci
sarà neppure il fastidio di prenderne le impronte
digitali!
Roberto Tanisi
ELEGIA PER TRE MITI
Cosa lega fra loro tre personaggi così diversi
e distanti come Martin Luther King, Robert
Kennedy e Jan Palach? Qualcuno, di primo
acchito, potrebbe rispondere: la morte,
avvenuta per tutti e tre nel medesimo arco
di tempo, circa quarant’anni fa, a distanza
di pochi mesi l’uno dall’altro (per King il 3
aprile 1968, per Kennedy il 6 giugno, per
Palach il 16 gennaio 1969). Ma la risposta,
per quanto corretta, non sarebbe esaustiva,
perché altri - e ben più profondi - sono i
legami che avvincono queste tre importanti
figure del secolo scorso e ce le restituiscono
vivide, ancora attuali, quasi non fosse
trascorso da allora così tanto tempo. Sono i
legami della libertà, dell’uguaglianza, della
giustizia sociale, gli ideali per i quali i tre
spesero - e persero - la loro esistenza, vittime
della bieca violenza che consuma speranze
e vite, contro cui, in contesti certamente
diversi, strenuamente si batterono.
M. L. King era un pastore battista, che con
le armi della non violenza combatteva contro
le discriminazioni razziali - all’epoca molto
in auge negli Stati Uniti - delle quali era fatta
oggetto la sua gente. Ai colored era, infatti,
proibito sedere sui bus e, se seduti, avevano
l’obbligo di cedere il posto ai bianchi; i
ragazzi negri non potevano frequentare le
stesse scuole dei bianchi e, soprattutto negli
Stati del sud (Georgia, Luisiana, Alabama,
Tennessee), era assai probabile che qualche
negro finisse appeso ad un albero dagli
estremisti del Ku Klux Klan, per colpe anche
veniali o per aver reagito contro le continue
e gravi discriminazioni perpetrate ai danni
degli afro-americani. Per questa sua battaglia,
King aveva ottenuto nel 1966 il premio Nobel
per la pace, ma, nonostante ciò, nonostante
fosse una personalità conosciuta e stimata
in tutto il mondo, era continuamente esposto
al rischio di esser ucciso.
Il 3 aprile 1968, nel suo ultimo discorso
tenuto a Memphis, nel Tennessee, egli
pronunciò parole che si rivelarono profetiche
sulla sua tragica fine. Disse: «Abbiamo giorni
difficili davanti a noi, ma non me ne
preoccupo. Sono stato in cima alla
Montagna… Come tutti vorrei vivere una
lunga vita, la longevità ha la sua importanza,
ma non mi preoccupo adesso, voglio solo
fare la volontà di Dio. Lui mi ha permesso
di salire sulla Montagna e ho guardato e ho
visto la Terra Promessa. Forse non ci
arriverò con voi, ma voglio che sappiate
stanotte che noi, come popolo, arriveremo
alla Terra Promessa! Sono felice stasera,
nessuno mi fa paura, i miei occhi hanno
visto la gloria della venuta del Signore!».
Poche ore dopo, nel pomeriggio del 4 Aprile,
un colpo di fucile (esploso, pare, da un
fanatico razzista, James Earl Ray) mise fine
ai suoi giorni. L’11 Aprile, anche a causa
dell’emozione e dell’indignazione che quella
morte aveva suscitato in tutto il Paese, il
Presidente Johnson sottoscrisse l’atto che
sancì la fine della discriminazione razziale
nella scuole americane.
Robert Kennedy, fratello del Presidente
John, assassinato a Dallas nel 1963, era
Senatore dello Stato di New York e candidato
alle primarie per le elezioni presidenziali,
che avrebbe facilmente vinto se la mano
omicida di Shiran Shiran, un fanatico
palestinese, non lo avesse fermato, la notte
del 4 giugno 1968. Al tempo della presidenza
del fratello Jack (il nomignolo con cui era
chiamato John Kennedy), da Ministro della
Giustizia si era reso promotore di una forte
campagna contro tutte le mafie americane,
che, probabilmente, insieme ai convergenti
interessi di taluni “poteri forti” che si
vedevano minacciati dalla coraggiosa politica
innovativa dei Kennedy, costò la vita al
Presidente americano.
Il 4 giugno 1968, dopo aver vinto gran parte
delle primarie del Partito Democratico, Bob
Kennedy tiene un importante discorso
all’Hotel Ambassador di Los Angeles. Anche
le primarie della California segnano il suo
successo e le speranze di un ritorno alla
politica della “Nuova Frontiera” sono sempre
più concrete. Kennedy rappresenta l’ala
liberal del partito e costituisce per i neri dei
ghetti, per gli emarginati, per le minoranze
ispano-americane la speranza di una
maggiore eguaglianza e giustizia sociale ma,
soprattutto, della fine della guerra nel Viet-
Nam. Da sempre egli si batte contro la guerra
e la violenza che - sostiene - sono in ogni
caso prive di qualsivoglia giustificazione.
Questi i passaggi più significativi del suo
ultimo discorso: «Mi sono riservato questa
occasione come unico impegno di oggi per
parlare gravemente con voi dell’insensata
minaccia della violenza in America, che
macchia ancora la nostra nazione e la vita
di tutti noi. Non è la preoccupazione di una
sola razza. Le vittime della violenza sono
neri e bianchi, ricchi e poveri, giovani e
vecchi, famosi e sconosciuti… Nessuno, in
qualsiasi posto viva, e qualsiasi cosa faccia,
può essere certo di chi sarà il prossimo a
soffrire per un insensato atto di sangue.
Eppure, la violenza continua, continua,
continua in questo nostro Paese. Perché?
Che cosa ha mai ottenuto la violenza? Che
cosa ha mai creato? Quando un americano
toglie la vita ad un altro americano, sia se
viene fatto in nome della legge, o contro la
legge, da un uomo o da una banda, a sangue
freddo o in preda al furore, in un attacco di
violenza o in risposta alla violenza, quando
strappiamo il tessuto della vita, che l’altro
ha faticosamente creato per sé e per i propri
figli, quando lo facciamo, l’intera nazione
è degradata… Troppo spesso scusiamo
coloro che costruiscono la propria vita sui
sogni infranti di altri esseri umani. Una cosa
è chiara: la violenza genera violenza, la
repressione genera rappresaglia, e soltanto
la pulizia di tutta la nostra società potrà
estirpare questo male dalla nostra anima…
Quando si insegna ad un uomo ad odiare,
ad avere paura del proprio fratello, quando
si insegna che un uomo ha meno valore a
causa del colore della sua pelle, non delle
sue idee o della politica che segue, quando
si insegna che chi è diverso da te minaccia
la tua libertà o il tuo lavoro o la tua casa o
la tua famiglia, allora si impara ad affrontare
l’altro, non come un compatriota, ma come
un nemico… Ricordiamoci che quelli che
vivono con noi sono nostri fratelli, che
dividono con noi lo stesso breve arco di vita,
che cercano, come facciamo noi, soltanto la
possibilità di vivere la propria vita con uno
scopo e in felicità, conquistandosi la
realizzazione e la soddisfazione che
possono… Impariamo a guardare chi ci sta
intorno, il nostro prossimo, a lavorare con
maggiore impegno per ricucire le ferite che
ci sono tra noi e per tornare ad essere fratelli
e compatrioti nel cuore».
Ma Kennedy era anche un uomo solo e
indifeso e Shiran Shiran non ebbe difficoltà
ad esplodergli contro i colpi di pistola fatali.
“Jack, Jack” furono le sue ultime parole, a
ricordare, nell’ultimo attimo di vita, il fratello
ucciso a Dallas, cui lo accomunò il medesimo
tragico destino.
Jan Palach non era né un leader politico né
un intellettuale, era solo uno studente
cecoslovacco che, come tanti suoi
connazionali, guardava con favore al
Segretario del partito comunista del suo
Paese, Aleksander Dubcek, protagonista
della c.d. “Primavera di Praga” e fautore del
“socialismo dal volto umano”, un socialismo,
cioè, che riconoscesse i diritti di libertà dei
cittadini (come in Europa occidentale, cui
Praga si sentiva storicamente legata) ed
affrancasse il suo Paese dal pesante giogo
sovietico. Una svolta, quella cecoslovacca,
che non poteva essere tollerata dall’Unione
Sovietica che, come in Ungheria nel 1956,
spense nel sangue ogni barlume di libertà.
Nella notte fra il 20 e il 21 agosto del 1968
i carri armati del Patto di Varsavia invasero
il Paese e nulla poterono gli inermi
cecoslovacchi, armati solo delle proprie
Pag. 5
bandiere. Oltre mille furono i morti. Jan
Palach fu l’ultimo. Vinto dalla disperazione,
mise in atto un estremo, generoso quanto
inutile gesto di protesta: si diede fuoco alla
maniera dei bonzi asiatici in Piazza San
Venceslao. Era il 16 gennaio 1969.
Sono trascorsi quarant’anni da allora, ma ci
è sembrato giusto riportare alla memoria
queste storie e questi personaggi, perché
libertà, eguaglianza, giustizia non possono
mai considerarsi beni definitivamente
acquisiti, neppure nel mondo occidentale e
nella nostra Italia, dove in questi ultimi tempi
sembrano purtroppo riaffiorare rigurgiti di
autoritarismo e xenofobia che ritenevamo
per sempre archiviati. Purtroppo erano solo
momentaneamente sopiti ed oggi paiono
risvegliarsi, mentre ad addormentarsi è,
invece, la ragione; e si sa che “il sonno della
ragione genera mostri”!
Riscontro con vero piacere, naturalmente
ringraziando tutta la redazione, l’invito rivoltomi
a presentare il progetto di solidarietà “IO HO
UN SOGNO”.
Lo faccio con il piacere e l’entusiasmo di chi
crede fermamente in questa iniziativa.
“Io ho un sogno”, nel concreto, è un’attività
di Fund Rising, una raccolta fondi per la
realizzazione di progetti e iniziative di sostegno
a persone che versano in stato di bisogno, conparticolare riferimento a bambini ed anziani. È
un progetto che si svilupperà con strumenti e
mezzi innovativi come il Marketing sociale e
il commercio solidale nel tentativo di
coinvolgere l’intera città e una comunità, come
la nostra, da sempre attenta e sensibile a
“IO HO UN SOGNO”
Il Consiglio Comunale di Taviano, all’unanimità, si è reso promotore di una iniziativa benefica
in favore di bambini e anziani bisognosi.
Abbiamo chiesto al Suo Presidente, Dante Coronese, di illustrarlo.
tematiche come questa. È un iniziativa che
promana dalla Presidenza del Consiglio
Comunale della città di Taviano, ma che è stata
fatta propria all’unanimità dall’intero Consiglio
Comunale. Segno, questo, che anche la politica
(quando vuole) sa spogliarsi di colori ed
appartenenze per percorrere il cammino della
solidarietà che, per essere tale, non ha e non
deve avere colori.
Occorre dire subito che i fondi raccolti saranno
gestiti in maniera del tutto autonoma da un
Comitato esecutivo nominato tra i cittadini.
Altro aspetto rilevante di quest’iniziativa è
l’adesione delle associazioni cittadine che
conferiscono all’intero progetto una dimensione
sociale molto importante.
L’iniziativa origina anche dall’esigenza di
risvegliare sotto il profilo dell’impegno sociale
e volontario la nostra comunità che, dopo essere
stata importante punto di riferimento per le
comunità cittadine vicine, attraversa forse una
fase di stanca. Un risveglio che significhi
ritrovare il gusto e la voglia di partecipare alla
vita pubblica riappropriandosi di spazi vitali
per la promozione e la crescita umana.
“Io ho un sogno” diventa, quindi, anche
un’occasione di rilancio del mondo associativo
tavianese che, oggettivamente, vive un momentodi crisi e difficoltà. È un progetto che da
“occasione” deve diventare “opportunità”.
“Io ho un sogno” è un’idea, un progetto, ma
anche una sfida. Una sfida contro l’indifferenza,
contro i silenzi, contro la dominante cultura
dell’egoismo e del cinismo. “Io ho un sogno”
è una prova alla quale tutta la città è chiamata
a dare risposte concrete di attenzione,
partecipazione e solidarietà nei confronti delle
persone più sfortunate.
“Io ho un sogno” è una famosissima frase
pronunciata in un memorabile discorso del 1963
da Martin Luther King. Egli aveva un grande
sogno, quello di una società americana più
giusta e democratica senza differenze razziali;
una società più liberà dove tutti fossero
effettivamente ed autenticamente liberi. Il nostro
“sogno” è certamente meno ambizioso, ma
altrettanto importante.
Qualcuno ha detto che noi non siamo chiamati
a “cambiare il mondo”, ma a contribuire per
la nostra parte a “cambiare il nostro piccolo
angolo di mondo” troppo complicato per essere
lieto e troppo poco grande per essere eroico.
Chiedo, allora, a “La Voce” di sostenere questa
iniziativa così come lo chiedo a tutti i cittadini,
convinto come sono che i nostri piccoli sogni,
insieme, possono realizzare quelli di persone
più sfortunate, perché tutti possano avere ed
incarnare speranza nuove.
Con affetto
Dante Coronese
L’Associazione Culturale “V. Bachelet”,
sensibile come sempre alle problematiche
sociali, ha aderito con entusiasmo all’iniziativa,
e si rende portavoce del messaggio lanciato dal
Presidente Coronese.
di Laura LupoA capo...
CARA VECCHIA SCUOLA
Settembre: tempo di scuola, tempo di cambiamento.
Il Ministro della Pubblica Istruzione ha deciso di ripristinare nella Scuola il voto in condotta, il maestro unico, la pagella con i voti, gli esami
di riparazione… e tant’altro. Nihil sub sole novi…Ma il Nuovo può rappresentare davvero un ritorno all’antico?
La Scuola della mia generazione era
una Scuola di altri tempi, apparteneva
ad un altro pianeta, e perciò ritengo
improponibile qualunque confronto con
la Scuola di oggi.
La carriera scolastica dei bambini aveva
inizio nella Scuola Elementare a sei,
sette anni e anche oltre; per i più piccini
c’era l’Asilo Infantile tenuto dalle suore,
oppure la mescia, o più semplicemente
il cortile e la strada, sotto gli occhi vigili
della mamma, della nonna, delle sorelle
più grandi. La realtà era molto dura. La
povertà aveva ancora i piedi scalzi e i
panni sdruciti, i geloni alle mani, lo
stomaco vuoto. Mentre i Comuni
provvedevano ad aiutare le famiglie
bisognose con l’ECA (Ente Comunale
Assistenza), la Scuola cercava di
alleviare le precarie condizioni degli
alunni disagiati intervenendo con il
Patronato Scolastico, che elargiva aiuti
provvidenziali e concreti.
A scuola c’era la Refezione: ogni mattina la cuoca
scioglieva nell’acqua bollente la farina lattea e,
al loro arrivo, i bambini trovavano una ciotola
di latte caldo e schiumoso, con una fetta di pane
spalmata di crema al cacao, l’antenata della
Nutella; a pranzo venivano distribuiti un piatto
di minestra fumante, una fetta di formaggio o
una porzione di pesce o di carne in scatola, un
frutto.
Scarpe di tela ricoprivano i piedi nudi; libri,
quaderni e penne venivano forniti a quanti ne
avevano bisogno.
Si cercava, in ogni modo, di garantire a tutti i
bambini il diritto inalienabile a dignitose
condizioni di vita; di diffondere l’istruzione
primaria in un ambiente sociale condizionato da
rilevante povertà e diffuso analfabetismo.
A quel tempo l’anno scolastico, diviso in trimestri,
cominciava il 1° di ottobre, giorno di San Remigio
sul calendario, per cui i bimbi che andavano per
la prima volta a scuola venivano detti Remigini;
dopo tre giorni, il 4 di ottobre, la festa nazionale
di San Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia,
regalava la prima vacanza.
Gli edifici scolastici erano per lo più antichi
palazzi adibiti all’uso, oppure imponenti
costruzioni quasi tutte a forma di U, con un
cortile interno.
Le aule erano stanzoni senza riscaldamento; le
suppellettili, di legno antico e scuro,
comprendevano una grande cattedra che
troneggiava su di un’ampia pedana; un’imponente
lavagna nera di ardesia; un armadio; banchi
biposto forniti di calamai per l’inchiostro e di
ripiano per le cartelle, con sedile e schienale
rigido incorporati, con piano-scrittoio inclinato
e ribaltabile; sui muri erano appesi il crocifisso,
l’alfabetiere, le carte geografiche; sui davanzali
delle finestre le maestre coltivavano piante in
vaso.
Le classi, divise in maschili e femminili,
contavano da trenta a quaranta scolari, guidati
da un solo insegnante. Uno scolaro meritevole
veniva scelto come capoclasse.
Nella stessa classe ci potevano essere alunni di
età diversa perché l’evasione dall’obbligo
scolastico causava frequenze in ritardo, molte
ripetenze, abbandoni.
La guardia municipale aveva un bel da fare a
recarsi nelle case per prelevare i riottosi, i quali
non sempre erano per strada a bighellonare, ma
molto spesso erano al lavoro nei campi, nelle
botteghe, a servizio, al pascolo, in giro a
raccogliere letame ...
A scuola le maestre indossavano il grembiule
nero, gli scolari portavano la divisa: grembiule
nero, colletto bianco, fiocco di vari colori,
secondo le regole di ciascun Circolo Didattico,
il quale comprendeva le scuole di più paesi.
Il corredo dello scolaro consisteva in una
cartelletta marrone di cartone, che conteneva il
libro di lettura e il sussidiario, spesso usati per
molti anni da più scolari; due quaderni a righi e
due a quadretti, per la bella e la brutta copia: i
primi avevano la foderina nera doppia e molte
pagine dai margini rossi cucite insieme; gli altri
erano quadernetti con gli spilli, avevano meno
fogli e una copertina illustrata; sul retro dei
quaderni a quadretti c’era sempre la tavola
pitagorica, e dietro quelli a righi un breve testo
narrativo, storico, scientifico o religioso.
I quadretti e i righi, larghi per la prima classe, si
rimpicciolivano di anno in anno fino alla quarta
perché gli scolari si esercitassero ad avere
massima cura della calligrafia; in quinta i righi
erano a spaziatura unica.
Le pagine venivano numerate, onde
evitare sprechi per uso improprio e
scapaccioni per attentato al bilancio
familiare.
Un astuccio di latta, di stoffa o di legno
conteneva una matita, un temperamatite,
una gomma, una penna, la carta
assorbente e una scorta di pennini perché
erano soggetti a spuntarsi, qualche
pastello colorato, che veniva usato fino
a quando si riduceva ad un mozzicone
inutilizzabile.
Prima dell’inizio delle lezioni
l’insegnante passava tra i banchi per la
rivista igienica: a tutti gli alunni, con le
mani ben aperte in avanti, venivano
controllate le unghie, il collo e le
orecchie, il grembiule e il colletto;
particolare attenzione veniva data ai
capelli, a causa della pediculosi difficile
da debellare.
Il profitto degli scolari e la loro condotta, di
capitale importanza, erano valutati con i voti
dallo 0 al 10, i quali venivano scritti a numero
sui quaderni e sul registro, in lettere sulle pagelle.
La pagella del I° trimestre veniva consegnata ai
genitori prima delle vacanze di Natale, e da essa
poteva dipendere la visita della Befana, attesa
per tutto l’anno da ogni bambino, anche da chi
si aspettava solo qualche confetto.
Il SEX (che ovviamente non aveva nulla a che
fare col sesso, parola tabù per un’epoca in cui
si cantava “si fa, ma non si dice” e i bambini li
portava la cicogna o spuntavano sotto i cavoli)
era il voto minimo indispensabile per PASSARE,
ovvero essere promossi alla classe successiva.
La x del sex, più prosaicamente, sostituiva la i
di SEI per impedire a qualche mano ardita di
trasformare sulla pagella un sei in sette.
Il sex, senza infamia e senza lode, era il voto-
frontiera tra l’asineria e la bravura: da cinque a
uno ti aspettava al varco la rimandatura o la
bocciatura; da sette a nove era assicurata la
promozione e l’approvazione generale.
Lo zero era l’abisso profondo, la condanna
assoluta senza appello; ma la gogna scolastica
era lo zero spaccato, in confronto al quale lo
zero semplice era persino decoroso. Nell’empireo
del sapere sovrastava, invece, il dieci, voto che
veniva attribuito raramente e solo a compiti svolti
in forma eccellente da alunni senza macchia, sui
quaderni e sulla coscienza, di provata bravura e
diligenza. Al dieci, eccezionalmente e semel in
anno o una tantum, si aggiungeva la lode. Il 10
e lode era la Coppa campioni degli scolari, la
consolazione del parentado, la candidatura al
sicuro proseguimento negli studi.
“È troppo bravo, bisogna fare dei sacrifici e
mandarlo a studiare”. A queste parole, di solito,
la madre esultava e il padre si rassegnava.
Si diceva “mandare agli studi” perché nei piccoli
paesi, oltre alle Elementari non c’erano altre
scuole e bisognava spostarsi nei grossi centri di
provincia o in città per frequentare la Scuola
Media e gli Istituti Superiori. Se la sede era vicina
al proprio paese, si poteva raggiungere ogni
giorno con il treno, con la corriera oppure con
la bicicletta; ma se era lontana o mal collegata
bisognava andare ad abitarci, in pensione o in
collegio. Ecco perché gli studi erano legati a
verbi di movimento, i quali metaforicamente
indicavano non solo un cammino fisico, ma anche
un percorso culturale e di vita.
Era chiaro a tutti i ragazzi, infatti, che, se agli
studi non si andava bene e alla fine dell’anno
non si passava… beh non c’era tempo da perdere
né denaro da sprecare. Si finiva, così, nei campi,
in cantiere o in bottega, dove c’erano altri ragazzi
i quali, pur dotati di capacità e di volontà, non
avevano avuto le possibilità finanziarie o, peggio
ancora, il consenso paterno per continuare gli
studi.
In quella scuola gli esami, come nella vita, non
finivano mai, (ma erano tempi in cui alle difficoltà
si veniva abituati fin da piccoli) e ovviamente si
trattava di esami scritti e orali: si dovevano
sostenere esami in terza e in quinta elementare;
esami di ammissione alla Scuola Media ed esami
di terza media, di quinto ginnasio, di maturità;
per tutta la durata degli studi c’erano ogni anno
a settembre gli esami di riparazione in quelle
materie nelle quali non si era raggiunta la
sufficienza. Si poteva essere rimandati fino a
quattro materie, dopodiché c’era l’inevitabile
bocciatura.
Per correggere il comportamento degli studenti
erano ammessi i castighi e le punizioni corporali:
in ginocchio, faccia al muro, in un angolo
dell’aula; bacchettate sulle mani, tirate di orecchie
e di capelli (tortura inflitta soprattutto alle code
e alle trecce femminili). C’erano alcuni insegnanti
che adottavano sistemi correttivi più drastici e
pesanti; ma la maggior parte per educare ricorreva
ai rimproveri severi, all’esclusione da attività
ludiche, all’assegnazione di compiti scritti onerosi
e impegnativi. Molto spesso erano gli stessi
genitori a richiedere le maniere forti verso i figli
e la severità era considerata un merito; gli
insegnanti che sapevano essere autorevoli
riscuotevano la fiducia delle famiglie ed il rispetto
generale. Una cosa è certa: lo studio era un
privilegio, la promozione una conquista, il
Pag. 7
diploma o la laurea erano il coronamento di sogni
e di aspirazioni. Ma soprattutto la Scuola
rappresentava la certezza di un futuro migliore
e la garanzia di una società più civile e progredita.
Poi, improvvisamente, il vento cambiò…e
travolse tutto e tutti. Cambiarono i tempi,
cambiarono gli Italiani, cambiò la Scuola.
Nei nuovi programmi delle Elementari la
Religione non fu più “a fondamento e
coronamento dell’educazione e dell’istruzione”;
nelle Medie, istituite in ogni paese e divenute
obbligatorie, furono eliminati il Latino e
l’Economia Domestica, (abbasso le Lettere morte,
evviva il Femminismo!); le divise scolastiche
furono abolite nelle Superiori e nelle Medie; i
grembiuli neri degli scolari sbiadirono
nell’azzurro e furono privati del fiocco; l’inizio
dell’ anno scolastico da ottobre fu anticipato a
settembre; i banchi di legno scuro furono sostituiti
dalla plastica verde; i quaderni divennero
quadernoni, il trimestre quadrimestre, le pagelle
schede di valutazione, i voti si tramutarono in
giudizi.
Le cattedre scesero dalle pedane, la Scuola
diventò Moderna e cominciò una Nuova Era
Scolastica.
MESSAGGIO DI INIZIO ANNO SCOLASTICO
Da alcuni anni a questa parte la nostra scuola è
diventata il banco di prova dei governi che si
avvicendano alla guida del Paese. Un modo
bizzarro di governare, che coinvolge tutti gli
ordini dell’istruzione e, in particolare, quello
della scuola Primaria.
Regna il Centro-destra e si accorcia il tempo
scuola, si aboliscono i moduli in favore
dell’insegnante prevalente (una specie di
insegnante unico), si mortificano il tempo pieno
e quello prolungato e, al posto delle “unità
didattiche”, si impongono le “unità” di
apprendimento che, essendo un microcosmo
culturale autonomo e autosufficiente all’interno
dell’universo del sapere, si ispirano palesemente
alla filosofia del Pragmatismo.
Subentra il Centro-sinistra e si cambia rotta:
aumenta il tempo scuola, si ripristinano i moduli,
si valorizza il tempo pieno e si ritorna alle “unità
di apprendimento”che, essendo parti di un sapere
unico e in costante evoluzione, sono la naturale
conseguenza di una concezione storicistica del
mondo e della vita.
Passa solo un anno e il ritorno al potere del
Centro-destra impone di nuovo di cambiare tutto
e di ritornare alle precedenti disposizioni. Come
sempre (ormai da decenni) i provvedimenti più
radicali si concentrano soprattutto sulla scuola
Primaria, lasciando quasi indenne la scuola
dell’Infanzia e la Media e coinvolgendo
marginalmente le scuole Superiori, eccezion fatta
per gli Istituti professionali. Si propongono
provvedimenti che modificano radicalmente le
concezioni filosofiche e culturali sulle quali
poggia un contesto sociale e si pretende che
vengano attuati dall’oggi al domani. Emblematico
di questo incomprensibile modo di agire è
l’episodio di Charles Darwin, uno dei pilastri
della cultura scientifica mondiale di tutti i tempi.
Intorno a Darwin si può dire di tutto, si possono
esprimere i pareri più disparati, ma pensare di
eliminarlo dai Programmi scolastici e, per di più,
pensare di farlo dall’oggi al domani è come
pensare di prosciugare il mare con un guscio di
noce. Eppure qualcuno ha pensato di farlo e
nessuno si è scandalizzato.
Dal governo della scuola italiana è stata bandita
la prudenza, l’accortezza, la saggezza.
Tempo pieno sì, tempo pieno no! Maestro unico
sì, maestro unico no! Darwin sì, Darwin no!
Sembra un gioco da bambini (per i quali il mondo
è tutto bianco o tutto nero) ed in realtà è un gioco
al massacro, proprio in tempi in cui la scuola
avrebbe bisogno di amministratori seri, competenti
ed equilibrati. In tutto questo bailamme la scuola
italiana (la Primaria in particolare) assomiglia
sempre più ad una grande nave in balia di
un’anomala tempesta. Viviamo in un momento
in cui cittadini e governanti non riescono a capire
che la scuola non si gestisce con le
contrapposizioni e tanto meno con le ideologie,
ma con il confronto sereno e costruttivo,
costantemente proteso alla ricerca di valori
condivisi e senza mai perdere di vista il bene
comune.
Nonostante tutto ciò sono fiducioso!
Ho fiducia nella scuola pubblica italiana. Nella
sua solida struttura, costruita in tanti decenni di
vita e di positive esperienze. Ho fiducia nelle sue
capacità di interagire positivamente con le scuole
private e di impegnarsi progressivamente nella
costruzione della scuola europea, che è la nostra
nuova vera frontiera. Una frontiera che vede
seriamente impegnato il governo dell’Unione e,
in parte, anche quello italiano. In questa direzione
sta cercando di muoversi anche la nostra scuola,
attraverso l’intensificazione dello studio della
lingua inglese e la realizzazione dei progetti
“Cambridge Esol Examination” e “Talkschool”.
Ho fiducia nelle famiglie, che non devono mai
smettere di collaborare positivamente con la
scuola, bandendo tutti i particolarismi, nella
consapevolezza che il bene del singolo deve
tendere verso il bene di tutti, oppure confligge
con i più elementari diritti dell’uomo e del
cittadino e infrange i canoni basilari di ogni
educazione.
Ho fiducia nei docenti che forse (non vorrei essere
partigiano) sono gli unici custodi dei grandi valori
della solidarietà e della convivenza e, come tali,
ancora riescono a influenzare positivamente le
menti e i cuori dei nostri ragazzi. Se non ci fossero
i docenti e
l’azione
continua di
tante realtà
educative
locali,
resterebbe
ben poco di
veramente
positivo, in
una società fortemente pervasa dalle mode e dai
mezzi di comunicazione sempre più condizionati
dagli interessi economici e sempre meno
disponibili alla cura dei principi, dei valori e della
morale.
Ho tanta, tantissima fiducia negli alunni e, più in
generale, nei nostri giovani. Non è vero che in
quest’ambito è tutto negativo. Ci sono tantissimi
ragazzi che affrontano la scuola e la vita con
impegno e dedizione ammirevoli e, per ciò stesso,
meritano tutta la nostra fiducia e il nostro sostegno.
Ho fiducia, infine, nel personale ausiliario e
amministrativo della scuola, che affronta sempre
con dedizione le continue richieste di nuove
competenze e nuove abilità, necessarie per una
scuola che si va sempre più specializzando e che
ha sempre più bisogno di una macchina
burocratica e amministrativa al passo coi tempi.
Consapevole dei numerosi problemi che ci
affliggono, ma forte della certezza che si possono
risolvere, formulo i miei migliori auguri di buon
anno a tutta la scuola tavianese. Mi auguro che
l’anno scolastico 2008/09, un anno certamente
di grande impegno e di duro lavoro per tutti, sia
l’anno della riflessione e della saggezza. L’anno
in cui, accanto alla presa di coscienza che la
scuola è il principale motore del progresso
economico, sociale e culturale di ogni popolo,
maturi anche la consapevolezza che la scuola
italiana, ormai stanca e afflitta da provvedimenti
tampone e da schermaglie politico-ideologiche,
necessita di una riforma generale, funzionale e
condivisa, sorretta dai principi della solidarietà,
dell’autonomia e della salvaguardia delle libertà
di tutti e di ciascuno.
di
GiuseppeCassini*
* Dirigente Scolastico
UNO SGUARDO INDIETRO
Fatti eclatanti... e non, accaduti fra il 1908 e il 1998 (periodo: maggio-agosto)
21 Giugno 1908, domenica: A Londra 250.000
persone partecipano alla più grande
manifestazione mai organizzata per esigere il
riconoscimento del diritto di voto alle donne.
Neppure con questa oceanica adunanza,
tuttavia, il movimento delle “suffragette”,
guidato da Emmeline Pankhurst, riesce a far
cambiare idea ai politici. Solo il 7 maggio 1928
le donne inglesi acquisiscono il diritto di voto
al conseguimento della maggiore età (21 anni).
30 Giugno 1908, martedì: Cade un enorme
meteorite in Siberia. Il fatto viene prontamente
segnalato dalla popolazione, atterrita
dall’evento incredibilmente singolare.
12 Agosto, 1908, lunedì: Viene proiettato a
Parigi il primo cortometraggio a disegni
animati, realizzato da Emile Cohl. L’opera si
intitola Fantasmagorie, si compone di 2.000
immagini e dura due minuti.
23 Maggio 1918, giovedì: Dopo una settimana
di sanguinosi combattimenti lungo le rive del
Piave, i soldati italiani infliggono una pesante
sconfitta alle truppe austro-tedesche. Inizia da
qui la controffensiva che si concluderà con la
vittoria finale di Vittorio Veneto. L’armistizio
sarà siglato il 3 novembre a Villa Giusti, presso
Padova.
16 Luglio 1918, martedì: A Ekaterimburg,
in Russia, l’intera famiglia reale dello zar
(compresa la piccola Anastasia, sulla cui sorte
nasceranno svariate leggende) viene fucilata
dalla polizia segreta sovietica.
28 Maggio 1928, lunedì: Si apre presso il
Tribunale speciale di Torino il processo ad
Antonio Gramsci e agli altri membri del Partito
Comunista, accusati di associazione sovversiva.
Il P.M. Michele Isgrò, a proposito di Gramsci,
dirà: «Dobbiamo impedire a questa testa di
funzionare».
28 Luglio 1928, sabato: Ad Amsterdam si
apre la IX edizione delle Olimpiadi. Contro il
parere del barone de Coubertin vi partecipano
per la prima volta anche le donne.
14 Luglio 1938, giovedì: Esce sul “Giornale
d’Italia” un anonimo Manifesto degli scienziati
razzisti, che riscuote l’approvazione del
Segretario del P.N.F. Starace. Il successivo 5
agosto inizia le pubblicazione il quindicinale
“La difesa della razza”. Sono i prodromi dei
decreti antisemiti che verranno approvati a due
riprese il 1° Settembre e l’11 Novembre e che
di fatto ghettizzano gli ebrei, radiandoli dagli
impieghi, privandoli dei diritti di cittadinanza
e proibendo loro il matrimonio con gli italiani.
Enrico Fermi, di origine ebrea, ritirato a
Stoccolma il premio Nobel per la fisica, riparerà
con la famiglia negli USA.
8 Agosto 1938, lunedì: A Mauthausen si inizia
Enrico Fermi
la costruzione del primo lager nazista in
territorio austriaco. La manodopera è costituita
da 3.000 detenuti del campo di concentramento
di Dachau.
14 Maggio 1948, venerdì: David Ben Gurion
proclama la nascita dello Stato di Israele. Il
primo era stato fondato nel 1020 a.C. dal re
Saul. Da questo evento deriverà la questione
palestinese, tuttora insoluta.
14 Luglio 1948, mercoledì: Antonio Pallante,
estremista di destra originario di Catania, spara
due revolverate a Palmiro Togliatti, mentre
esce da Montecitorio. La notizia suscita
profonda indignazione e minaccia di far
precipitare il Paese in una nuova guerra civile.
La sera del 19 luglio Togliatti è dichiarato
fuori pericolo.
26 Luglio 1948, lunedì: Gino Bartali vince il
Tour de France e la notizia contribuisce a
rasserenare gli animi degli italiani, ancora tesi
per l’attentato a Togliatti.
28 Giugno 1958, sabato: Per iniziativa del
musicista Giancarlo Menotti si inaugura a
Spoleto il Festival dei due mondi.
29 Giugno 1958, domenica: Il Brasile diventa
campione del mondo di calcio battendo la
Svezia per 5 a 2. I brasiliani adottano il modulo
4-2-4, con un attacco da favola: Garrincha,
Pelè, Vava e Zagalo.
10 Maggio 1968, venerdì: Dopo i gravi scontri
fra studenti e Polizia, verificatisi a Nanterre,
altre manifestazioni violente si susseguono aParigi. È il c.d. “Maggio francese”. I giovani
protestano, non solo in Francia ma in tutto il
mondo, rivendicando la riforma della Scuola
e dell’Università, ma soprattutto, un mondo
più libero e giusto.
5 Giugno 1968, mercoledì: Il giordano Sirhan
Sirhan compie un attentato a Los Angeles
contro il senatore Bob Kennedy, candidato alla
Presidenza degli Stati Uniti, che muore il giorno
dopo. Quel drammatico giorno è stato di recente
rievocato in un bellissimo film, “Bobby”.
17 Luglio 1968, mercoledì: Prima a Londra
del film a disegni animati The Yellow
Submarine, con la colonna sonora dei Beatles.
Sarà un grande successo di pubblico, ma
rappresenterà anche il “canto del cigno” per i
Beatles che, di lì a poco, si scioglieranno.
20 Agosto 1968, martedì: Malgrado la
resistenza della popolazione e le proteste
internazionali, le truppe del Patto di Varsavia
occupano la Cecolsovacchia. Il Premier
Aleksander Dubcek è arrestato, la Primavera
di Praga finita. Un giovane, Jan Palak, per
protesta, si darà fuoco in Piazza San Venceslao.
9 Maggio 1978, lunedì: Reinhold Messner e
Peter Habeler sono i primi a scalare l’Everest
senza bombole di ossigeno.
18 Maggio 1978, giovedì: La leggenda del
ciclismo Eddy Merchx si ritira dalle gare.
21 Giugno 1978, mercoledì: L’opera rock
Evita, di Andrew Lloyd Webber, esordisce a
Londra. Ne sarà tratto anche un film con
Madonna e Antonio Banderas.
8 Luglio 1978, sabato: Il nuovo Presidente
della Repubblica italiana è il socialista Sandro
Pertini. Ex-partigiano, dal carattere forte ed
irruento, sarà il Presidente più amato dagli
italiani.
Locandina del film “The Yellow Submarine”
26 Luglio 1978, mercoledì: In Gran Bretagna
viene alla luce il primo neonato fecondato fuoridal grembo materno. È una bimba, cui verrà
posto il nome di Louise. Con la tecnica della
fecondazione assistita molte coppie possono
coronare il sogno di avere un bambino.
Pag. 9
6 Agosto 1978, domenica: Muore Papa Paolo
VI. Il suo è stato un papato molto difficile,
anche a causa delle profonde trasformazioni
che hanno interessato il mondo e la Chiesa
Cattolica, stretta fra il conservatorismo di
prelati come il Cardinale Siri e i fautori della
c.d. “teologia della Liberazione”. Paolo VI ha
saputo, tuttavia, esercitare il suo Magistero
con sobrietà e moderatismo, sempre attento ai
diritti ed alle necessità dei più deboli.
Suo successore sarà Albino Luciano, Papa
Giovanni Paolo I.
11 Giugno 1988, sabato: A Londra si svolge
un concerto rock in onore del leader sudafricano
Nelson Mandela, in carcere da 20 anni. Il
concerto rappresenta anche una vibrata protesta
contro il regime dell’apartheid. Alla fine
Mandela riuscirà vincitore e da Presidente del
Sud-Africa porrà fine alla discriminazione
razziale.
28 Agosto 1988, domenica: Nella città tedesca
di Ramstein, nel corso di un volo dimostrativo
della pattuglia aerea italiana delle frecce
tricolori, tre caccia a reazione si scontrano e
precipitano al suolo. Nel terribile incidente
perdono la vita 70 persone. Anni dopo,
qualcuno parlerà di un attentato legato alla
vicenda dell’aereo caduto a Ustica.
5 Maggio 1998, martedì: In Val di Sarno una
frana dovuta al maltempo travolge alcuni paesi,
causando 161 morti e danni per miliardi.
6 Maggio 1998, mercoledì: Viene finalmente
arrestato il serial-killer Donato Bilancia, reo
confesso di 15 omicidi. Sarà condannato
all’ergastolo.
2 Agosto 1998, domenica: Il ciclista italiano
Marco Pantani, dopo aver vinto il Giro d’Italia,
vince anche il Tour de France. Su di lui - e sul
ciclismo - aleggia tuttavia l’ombra del doping
(che sarà la causa, anni dopo, della prematura
scomparsa del “pirata”).
Marco Pantani
17 Agosto 1998, lunedì: In un discorso in
televisione il Presidente statunitense Bill
Clinton ammette di aver avuto un “rapporto
improprio” con l’ex stagista Monica Lewinsky.
Anche in Italia qualcuno grida allo scandalo,
ma stando ai pettegolezzi di questi giorni viene
da dire che davvero “tutto il mondo è paese”.
SE IL SILENZIO È D’ORO…
Nell’ultimo, recente, bel film per l’infanzia
Kung fu Panda, per divenire Guerriero Dragone,
cioè il più abile combattente di Kung fu, il
protagonista deve impadronirsi di un’antica
pergamena, custodita da secoli, contenente il
segreto della forza senza limiti: chi fosse riuscito
a leggerla sarebbe diventato così potente da
sentire il battito d’ali di una farfalla e vedere
nel buio della grotta più profonda.
Sentire anche un piccolissimo suono della natura,
e vedere anche nei recessi più bui: è questo il
fondamento del potere umano. Ascolto del
mondo (della natura e dell’altro) e ascolto di
sé, capacità di guardarsi dentro. Ma oggi è
difficile, quando non impossibile, per chi lo
voglia, ritagliarsi un tale potere anche in questo
lembo di terra del Salento, un tempo non lontano
isola felice.
“L’inciviltà sonora produce un concerto
ininterrotto: motociclette adattate ad arte per
far rumore, automobili con l’autoradio a bomba,
urla notturne, l’odiosa abitudine di rimpinzare
di musica negozi, bar, ristoranti… Chi va a
sentire il rock allo stadio compie una scelta e,
per così dire, ottimizza i decibel, concentrandoli
in un singolo e apposito spazio, e in due ore ditempo. È il resto, è il fracasso disperso e imposto,
è la musica involontaria e passiva quella che
sfascia i nervi. E viola la libertà degli altri.”
Così Michele Serra su La Repubblica; e parlava
di città del Nord!
La cacofonia di suoni che ci circonda a intervalli
regolari - avvertono studi scientifici - mette in
pericolo la nostra salute: è causa di ipertensione,
stress, aggressività, disturbi cardiaci. Eppure,
nonostante questi allarmi del mondo scientifico,
nonostante il disagio che tanti, quotidianamente,
vivono sulla propria pelle, le nostre case, le
nostre strade, le nostre giornate sono sempre
più invase dal rumore: lo stereo dei figli, il
televisore dei vicini, l’ululare dei cani
abbandonati in casa e fuori, le irritanti
onnipresenti suonerie dei cellulari e degli allarmi
antifurto che suonano a distesa… E allora, si
attende con ansia l’estate, come tempo
dell’anima, del riposo fisico ma soprattutto
interiore, della distensione. Anche il Papa ogni
anno, in prossimità delle vacanze, invita a
riscoprire il valore del silenzio e a coltivare
questa “indispensabile dimensione interiore
dell’esistenza umana”. E, invece, anche il senso
delle vacanze - quella fetta della nostra vita in
cui ognuno ha il diritto di concedersi il meritato
relax - sembra si stia pericolosamente ribaltando:
non un tempo “vuoto” (come vuole l’etimologia
latina) da riempire con ciò di cui si ha più
bisogno, ma, al contrario, il più intasato: di
volgarità, di rumori, di decibel che si insinuano
in ogni angolo delle nostre case, di
“deregulation” nel traffico, nelle file al
supermercato, sui bagnasciuga anche della nostra
piccola marina…
Tra i tanti esempi: la mattina, in spiaggia, non
è possibile ascoltare il mormorio dolce delle
onde sulla battigia, le voci ovattate dei bambini,
leggere o contemplare in silenzio gli azzurri di
mare e cielo. Non è possibile perché a imperare
è la musica, magari di genere House con lo
snervante tam-tam dei suoi bassi. Trascorrere
qualche ora della sera in riva al mare, per
sfuggire all’afa? Sì, ma... .per averne in cambio,
senza soluzione di continuità, la tortura acustica
imposta da terzi (ormai da anni, una serata a
due passi dal mare, rinfrancati dalla brezza e
dal fruscio dolce della risacca è DAVVERO
solo un’utopia, un nostalgico sogno da…
fanciullino pascoliano).
Osserva qualcuno con miopia: è il progresso!
Ma se - come diceva un Padre della Chiesa
nella vita spirituale “non progredi est regredi”
(non andare avanti significa andare indietro)
non sempre è così nella vita materiale; spesso
succede che proprio un malinteso senso del
progresso equivale a regredire rovinosamente:
nell’inciviltà dei rapporti umani, nella
superficialità dello spirito, nella disattenzione
e disaffezione verso ciò che ci circonda.
In un libro (Manifesto per il silenzio) pubblicato
un anno fa da uno studioso inglese, il Professore
universitario Stuart Sim, si sostiene che il rumore
è una guerra condotta dalle forze del progresso
economico contro l’individuo. Religione,
filosofia, musica dimostrano che il silenzio non
contraddistingue l’assenza di qualcosa bensì
rappresenta un bene di importanza cruciale per
la nostra civiltà: è il fiume in cui naviga il
pensiero umano.
Cogito ergo sum: non si può pensare, ma neppure
leggere, ma neppure comunicare, ascoltare (se
stessi, gli altri, la “propria” musica) se si è
circondati dal fracasso.
Forse siamo ancora in tempo per un’inversione
di tendenza; chi è convinto che i sogni buoni
non sono roba per idealisti batta un colpo!
Scoprirà il segreto dell’antica pergamena
custodita dalla notte dei tempi.
Marinella Cacciatore
Se l’arrivo di giugno dona ad ogni tavianese la gioia di riaprire le porte delle
case di Mancaversa, per trascorrere lì le tanto desiderate vacanze, gli ultimi
giorni di agosto segnalano l’imminente fine della stagione.
Cosa rimarrà dell’“Estate-Mancaversa 2008”? Senz’altro sarà impossibile
dimenticare la limpidezza e il luccichio del mare, che è un elemento qualificante
della nostra Marina, insieme alla costa “decorata” dalla naturalezza della
Macchia Mediterranea, diventata per noi Salentini un vero marchio di prestigio
da curare e rispettare.
Tante belle mattinate da trascorrere al mare e tante suggestive serate a cui
partecipare, allietate da sagre e varie rappresentazioni teatrali e musicali; come
dimenticarsi del “simpatico” mercato che ogni mercoledì proponeva una serata
per passeggiare, dando l’opportunità di osservare la bellezza del lungomare!
Ogni cosa ha contribuito a realizzare tre mesi all’insegna del relax e del
divertimento, per regalare ad ogni tavianese e a tutti i turisti, che puntualmente ogni anno ci fanno
visita, un’estate “tutta da ripetere”.
Margherita Coppola, Studentessa
Il bilancio della stagione estiva di Mancaversa, secondo il mio parere, è
sostanzialmente in linea con quello degli scorsi anni. Nonostante una
congiuntura economica negativa, che, ovviamente, ha avuto una ricaduta
anche nel settore turistico, le presenze hanno registrato il consueto affollamento
nel periodo di Ferragosto, confermando il trend nazionale che vede diminuire
i giorni di permanenza dei turisti.
Gli eventi più rilevanti da ricordare della stagione sono l’inaugurazione
dell’area parcheggio e sosta per auto e caravan in via dei Gigli, il completamento
e la messa a norma dell’impianto di pubblica illuminazione in località
Giannelli, la creazione del marchio di accoglienza turistica e, ovviamente la
splendida serata del concerto dei Nomadi.
Mancaversa offre diversi punti di ritrovo e di aggregazione come piazza delle
Rose, il lungomare Jonico, piazza Mancaversa, il parco Jonico, piazza S.
Anna. Quello che per molti è un aspetto penalizzante, in quanto vi è il
dislocarsi della gente in più luoghi, secondo me è un punto di forza, in quanto
permette di avere possibilità di scelta e consente
una migliore circolazione stradale, come si è potuto
positivamente sperimentare in occasione di serate
caratterizzate da un notevole afflusso di gente.
Sono in preventivo, per il breve termine, alcuni
progetti relativi a Mancaversa come il riutilizzo della
zona del campo sportivo che, tramite un project
financing, diventerà area per sagre e spettacoli,
dotata di ampio parcheggio e rispettosa di tutte le
norme di igiene e sicurezza.
Con l’apporto di tutte le forze politico-sociali della
Città, con la condivisione di tutti i cittadini e degli
operatori economici della marina, bisogna lavorare
per attrarre turisti ed investitori, puntando sulla
capacità di accoglienza, sull’onestà e, soprattutto,
sulle condizioni di tranquillità e quieto vivere civile
che ha sempre saputo offrire la nostra amata
Mancaversa.
Germano Santacroce,
Consigliere di Maggioranza
Sono stata per un lungo periodo lontana dal luogo in cui sono
nata, Taviano, e molto spesso i miei ricordi si soffermavano su
quello che da sempre mi ha regalato grandi emozioni: il “mio”
mare, con i suoi colori e il suo profumo impareggiabili.
Adesso ho ristabilito la residenza nella mia cittadina e sono
sempre più convinta che la natura ci abbia privilegiati regalandoci
tanta bellezza, che però si scontra in maniera molto evidente con
il contesto urbano che la circonda.
Ho notato che manca un’adeguata attenzione al miglioramento
dei servizi pubblici per il mantenimento di strade, piazze e coste.
Penso anche che maggior riguardo si sarebbe dovuto dedicare
alle serate di intrattenimento, in forma molto sobria, ma
programmate in modo tale da poter soddisfare le esigenze dei
turisti che hanno deciso di soggiornare nella nostra marina. Per
cui penso che tutti dovremmo soffermarci e fare dei bilanci,
evidenziando le zone d’ombra, se vogliamo che sortisca l’esatto
risultato del concetto di “programmazione”, perché è solo in
questo modo, e non perseguendo la strada dell’improvvisazione,
che possiamo proficuamente guardare alle stagioni successive.
Una nota positiva a cui do atto è stata la manifestazione “Chloris
arte in fiore”: gli organizzatori hanno saputo regalare due serate
raffinate ed eleganti, inorgogliendo il mio senso di appartenenza
ad una cittadina che, in un tempo non remoto, è stata “generosa”
di buon gusto.
Elisa Calzolaro, Insegnante
“L’estate sta finendo”… recitava con rammarico e tristezza una canzonetta
tormentone di alcuni anni fa. Ed è proprio vero, la fine dell’estate porta tristezza,
soprattutto se si guarda a quella che è stata questa stagione per la nostra città
e si vede un periodo di tre mesi veramente grigi e non certo per ragioni
meteorologiche.
È perciò tempo di bilanci e di analisi su come anche quest’estate sia trascorsa,
sia per i nostri turisti, sia per i nostri operatori. Il giudizio, anche se ancora
privi di numeri non può che essere negativo. E non ci si venga a dire che la
ragione è nella crisi economica che sta attraversando il nostro Paese, o nel
fatto che l’amministrazione comunale insediata da poco più di due anni non
ha potuto organizzare un’adeguata attività promozionale per la stagione che
sta finendo. La prima congettura è facilmente contestabile, affermando che
gli italiani e soprattutto gli stranieri non hanno rinunciato alle vacanze, magari
brevi, ma pur sempre vacanze fuori della città ed in particolare al mare… basti pensare ai migliaia
di kilometri di coda nelle autostrade.
La seconda giustificazione è altrettanto priva di fondamento. Ed allora perché Taviano sembra essere
così in difficoltà?
Il discorso sarebbe troppo lungo, ma è necessario fare alcune riflessioni perché si apra un dibattito
serio, costruttivo e si passi dalle buone intenzioni ai fatti. Non vogliamo seguire il modello “Racalino”,
scopiazzarlo diventerebbe sempre una “brutta copia”, ormai questo sembra essere un dato assodato,
ma allora quale altro modello vogliamo rappresentare nello sterminato campo delle offerte turistiche. Questo
bisogna che i nostri amministratori ce lo dicano. Perché se continuiamo a puntare solo sul sole, sul mare
e magari su una bandiera blu, che ormai sta diventando come un “cavalierato”… cioè non la si nega a
nessuno, non faremo molta strada, nel campo turistico. Che cosa contraddistingue la nostra città?
Nell’immaginario collettivo che cosa il grande pubblico associa Taviano e la sua Marina di Mancaversa?
Tutti conoscono Gallipoli, Otranto, ma anche Ugento e tanti altri Comuni del salento, ciò non avviene più
per Taviano! E questo ci deve preoccupare perché nella società globalizzata e mass-mediatica in cui
purtroppo viviamo, la popolarità è fondamentale per poter sopravvivere commercialmente. Non siamo più
nemmeno Oasi di tranquillità, felice slogan, forse un po’ antiquato, ma che almeno ci contraddistingueva
fino agli anni ’80.
Serve dare una chiara connotazione al nostro turismo, e bisogna farlo coerentemente. Serve dare più forza
al Sistema turistico Locale, maggiori risorse all’assessorato al turismo con sempre più competenze in
materia di promozione soprattutto. Abbiamo bisogno di risposte chiare da parte dei nostri amministratori,
perché “l’estate sta finendo”… ma a Taviano è mai iniziata!?
Leonardo Tunno, Consigliere di Minoranza
Il Salento è la parte della Puglia più vivace per quanto riguarda l’estate delle
processioni, concerti bandistici, spettacoli di musica leggera e fuochi pirotecnici,
sagre e fiere allietate da canti, a suon di tarante e pizziche; tali eventi diventano una
necessità per le marine dell’unione dei comuni Taviano, Alliste, Melissano, Racale
che, vivendo di luce riflessa, devono organizzarsi per attrarre i turisti e far conoscere
le proprie bellezze architettoniche e naturali. Da quello che ho potuto notare leggendo
i depliant delle manifestazioni estive anche quest’anno i comuni della nostra unione
si sono dati da fare seguendo tuttavia una politica campanilistica che ha portato a
duplicazioni di manifestazioni simili negli stessi giorni (caso emblematico l’11
agosto serata a Mancaversa dei Nomadi e contemporaneamente a Torre Suda di
Mario Biondi) e non programmando una stagione estiva unica che porti il turista
verso un unico ideale itinerario che lo metta nelle condizioni di appezzare i sapori,
il suggestivo paesaggio, il mare cristallino e i centri storici tipici dei nostri comuni.
In quest’ottica devono entrare non solo i nostri amministratori pubblici, ma anche gli operatori commerciali
(bar, trattorie, pizzerie, bed & brekfast, alberghi e affittuari) che devono fare la loro parte imparando a fare
sistema e ad offrire tutti insieme, non come concorrenti, una gamma di servizi che renda la vacanza di chi
a scelto il Salento indimenticabile. Volendo dare uno sguardo alla stagione estiva che si sta per concludere
ritengo che sia stata notevolmente influenzata dalla crisi economica (il notevole calo di presenze turistiche
nell’intero Salento meno settanta per cento secondo il quotidiano di Lecce, nel mese di luglio ne è la
riprova); che vi sia stato una concentrazione di presenze turistiche notevolissima nel solo mese di agosto
(troppo in troppo poco tempo); ed infine che vi sia stato un ritorno dei giovani (forse perchè le famiglie
non si potevano permettere affitti così alti!!!) che non so se definire positivo o meno. L’augurio è che la
prossima sia una stagione estiva più parteciapata sia nel pubblico che nel privato, e maggiormente
destagionalizzata.
Maurizio Lezzi, Operatore Commerciale
CHI VA, CHI TORNA
Nello scorso mese di luglio c’è stato il “cambio della guardia” nella Parrocchia dell’Addolorata. A don Albino De Marco, per 11 anni
Amministratore e Parroco, è succeduto don Fernando Vitali (per lui si tratta di un ritorno a casa). Pubblichiamo una sintesi dei loro interventi
di saluto e formuliamo loro il nostro fervido augurio di una buona missione pastorale alla guida del popolo di Dio.
D opo l’annuncio della conclusione del
mio incarico di Parroco nella
Parrocchia della B.V.M. Addolorata di
Taviano, e del mio trasferimento, ho pensato
molto a quale atteggiamento fosse più giusto
conservare nell’intimo del cuore, in questa
circostanza terminale.
All’immediato dispiacere, che molti di voi mi
hanno manifestato personalmente, si è subito
affiancata una sensazione di intima soddisfazione,
proveniente dal ricordo di tutto ciò che di positivo
è stato costruito negli anni del mio servizio nella
nostra amata Parrocchia.
Per tutto ciò che di bello e di buono insieme
abbiamo reso possibile voglio ringraziare
innanzitutto il Signore, da cui proviene ogni dono
e benedizione.
Mi sembra opportuno, poi, manifestare una
grande riconoscenza alla mia famiglia che,
assistendomi quotidianamente, mi ha dato la
possibilità di poter pensare convenientemente al
mio servizio.
Un grazie sentito va poi ai Confratelli Sacerdoti,
agli ammalati che mi hanno sostenuto con
l’offerta della loro sofferenza, e a tutti coloro
che hanno espresso collaborazione con diverse
modalità e nelle più varie situazioni; ringrazio
poi le Amministrazioni Comunali che si sono
avvicendate in questi anni, le Forze dell’Ordine
e tutte le Associazioni cittadine e parrocchiali.
Un grazie di cuore, ancora, va a tutti quelli che,
con tanto rispetto e discrezione, mi hanno offerto
la loro amicizia, preziosissima per me, ed hanno
speso parte notevole del loro tempo e delle proprie
energie per sostenermi, in maniera particolare
nei momenti di difficoltà.
Dopo tredici anni trascorsi in questa Città, posso
dire tranquillamente che Taviano mi è entrata
nel cuore e che qui, fino ad ora, ho trascorso i
migliori anni della mia vita. Sono sicuro che non
è finito tutto, qualcosa rimane: restano quei
sentimenti e quelle relazioni umane ed affettive,
maturate nel corso del tempo, che vanno anche
al di là delle cariche puramente istituzionali.
Voglio dire con certezza che con voi, fino ad
oggi, sono stato Parroco; per voi, da oggi resterò
fraternamente amico.
Mi mancherà sicuramente lo sguardo protettivo
della nostra cara Madonna del Miracolo; ogni
giorno, da dietro, mi guardava le spalle… mi sa
che da oggi in avanti Sant’Antonio si dovrà dar
da fare parecchio per starle alla pari!
A tutti voi raccomando Lei, la Madonna del
Miracolo: rispettatela, amatela, servitela come
lei vi rispetta, vi serve, vi ama.
Vi auguro veramente ogni bene per il futuro e
su tutti voi, molto volentieri, invoco ogni
benedizione da parte del Signore.
Don Albino De Marco
La FraseI vecchi si compiacciono di dare buoni
consigli, per consolarsi di non essere più
in grado di dare cattivi esempi.
François La Rochefoucould
N el salutare le autorità religiose e
civili e tutti i parrocchiani, il mio
primo pensiero va a Dio; a Lui,
ricco di misericordia, affido la mia miseria.
Subito dopo il pensiero corre a Don Luigi
Antonazzo, primo Parroco di questa
comunità, a cui ha dato tutto se stesso fino
all’ultimo; il Signore lo renda partecipe
della liturgia celeste. Il mio ringraziamento
particolare va a Don Albino per quanto ha
fatto, sia per la cura pastorale delle anime,
sia per il restauro di questo nostro
Santuario, riportato agli splendori originali
e reso anche più funzionale.
Oggi vi dico che vi voglio bene, ma ve lo
dirò ancora più forte domani, nel
Getsemani, nel Pretorio, sul Calvario, dove
il voler bene costa di più, ma ha una sapore
diverso.
Nel dare inizio al mio Ministero pastorale
nella Parrocchia della B.V.M. Addolorata,
faccio mie le parole di Sant’Agostino, che
hanno sempre ispirato il mio Ministero
Sacerdotale: “Non appartieni più a te. Sei
servo di tutti”. Non appartengo più a me,
appartengo a Dio e a voi. Non devo essere
né di questi né di quelli, ma di tutti. Prima
che a voi, appartengo a Cristo, ed a Lui
devo dare la priorità. Niente è così
necessario a un sacerdote quanto la
preghiera, che
padre e del fratello,
quando ne è il caso,
parlare con
franchezza anche se
gli costa il farlo.
Vengo a voi a mani
vuote. Il Parroco è
uno che ha bisogno
di tutti. Ha bisogno
anzitutto di Dio,
perché senza Dio
potrebbe nulla e
avrebbe nulla da
dare. Ha bisogno
degli altri, perché
senza collaboratori
potrebbe poco e
avrebbe poco da
dare. Vengo a voi perché mi consideriate un
gradino per arrivare a Cristo. Vengo a voi con
la mia pochezza e i miei difetti, ma vi prego
di non confondere me e le mie debolezze con
Cristo che è bontà.
Ringrazio e saluto i Confratelli Sacerdoti, tutte
le Associazioni e i gruppi parrocchiali, tutti
coloro che, in vario modo, collaborano in
Parrocchia; a tutti assicuro che troveranno in
me un interlocutore attento e fraterno.
Ringrazio la Comunità e il Sindaco di Racale,
per la collaborazione e la squisita sensibilità
e attenzione forte ai problemi della Città. Saluto
il Sindaco di Taviano e la Giunta Comunale,
tutte le Autorità militari e le Associazioni che
operano nel sociale. Un saluto affettuoso e
fraterno alla Comunità di San Martino con il
suo Parroco, assicurando collaborazione e
comunione nella linea pastorale.
A tutti chiedo due cose: fatemi largo nei vostri
cuori e seguitemi nella preghiera, che sarà la
mia forza.
Il Signore mi conceda la sapienza del cuore e
la fedeltà alla chiesa. La Vergine Addolorata
ci presenti al suo figlio Gesù, ci tenga uniti e
faccia di noi una famiglia, che dal Cenacolo
si porta nella quotidianità da missionaria a
diffondere il seme della Parola di Dio, perché
il Suo Regno si compia.
Don Fernando Vitali
RESTAURATO PALAZZO DE FRANCHIS
Nello scorso mese di giugno è stato inaugurato il restaurato Palazzo Marchesale. La
restituzione alla città dell’antica dimora dei marchesi De Franchis (XVII sec.), che ha
visto coinvolte a vario titolo le ultime
quattro civiche amministrazioni (guidate
dai sindaci Ria, Longo, Tanisi e
D’Argento), costituisce opera altamente
meritoria, sia - com’è ovvio - sotto il profilo
storico-architettonico, sia sotto il profilo
socio-culturale, potendo il Palazzo fungere
da contenitore per mostre, spettacoli,
conferenze e quant’altro.
Si attende ora - finanziamenti permettendo
-il completamento dell’opera.
W I SINDACI-SCERIFFI
Io non c’entro nulla! Se qualcosa non funziona
come previsto, non prendetevela con me ma col
Ministro Tremonti, che ha inopinatamente usato
il mio nome (gli chiederò i diritti d’autore)! Mi
riferisco all’ultimo balzello inventato dallo
Sceriffo di Via XX Settembre, la Robin Hood
tax, la tassa studiata per togliere ai ricchi
(petrolieri e banche) per dare ai poveri (cittadini
e utenti). Sbandierata come la grande novità
fiscale del nuovo governo, non pare stia dando
i frutti sperati: il prezzo della benzina e del
gasolio sono sempre altissimi, nonostante quello
del greggio sia sceso sensibilmente, mentre di
eliminare taluni costi, assolutamente
ingiustificati, dai conti correnti bancari non se
ne parla nemmeno. Finirà come sempre: a pagare
sarà il cittadino (altro che guerra ai “poteri forti”).
Ma non è di tasse che voglio parlare, anche
perché siamo a settembre, mese di rincari, e non
intendo angustiare ulteriormente il paziente
lettore, già preoccupato di suo.
Parliamo, invece, di sicurezza. Si sa che questo
è uno dei problemi cruciali del nostro Paese,
con quattro regioni in lotta con le varie mafie
ed un tasso di corruzione fra i più alti nel mondo.
Logico, quindi, aspettarsi che i governanti
affrontino con fermezza un problema così
rilevante. E invece cosa ha partorito, fra le tante
misure (alcune sensate), l’ultimo provvedimento
legislativo? La creazione di una nuova
figura mostruosa, una sorta di irco-cervo
dai lineamenti non ancora ben definiti: il
Sindaco-sceriffo. Sulla scia di alcuni mitici
Sindaci americani (Giuliani su tutti) e
venendo incontro a pressanti richieste della
base (molti “primi cittadini”, di diverso
colore politico, hanno chiesto a gran voce
di essere ancora più… primi), il Parlamento,
piuttosto che dotare di mezzi e strutture
chi è professionalmente preposto alla tutela
dell’ordine e della sicurezza (forze
dell’ordine e Magistratura, che hanno visto,
invece, sensibilmente ridotti i loro
stanziamenti), ha pensato bene di conferire
ai Sindaci tutta una serie di poteri in materia
di sicurezza, trasformandoli, appunto, in
Sindaci-sceriffi. E qual è stato il risultato
di cotanta riforma? Tutta una serie di
provvedimenti che con la sicurezza - quella vera
-hanno poco a che fare.
Qualche esempio. A Novara e a Voghera, dopo
le 23, non si può stazionare nei parchi cittadini
o sedersi sulle panchine in più di due, pena una
multa da 500 euro. Così - immagino - si dovrà
necessariamente passeggiare, allineati e coperti,
in fila per due e a debita distanza gli uni dagli
altri, per non fare assembramento; se, poi,
qualcuno intende dire qualcosa all’amico di
un’altra coppia, dovrà, come in una staffetta,
darsi il cambio con l’interlocutore non interessato.
Ad Assisi, Silvi, Pescara, Verona è vietato
chiedere l’elemosina, pena una multa da 100 a
1.000 euro. Ora, a parte l’odiosità di una misura
che colpisce i più poveri, viene da chiedersi: ma
se già quei poveri cristi, sorpresi a tendere la
mano, non hanno di che vivere, come pagheranno
multe così salate come quella previste dalla
nuova legge? E se non le pagheranno (come è
probabile) quali saranno le conseguenze? Forse
la gogna? la fustigazione in pubblica piazza o
cos’altro? O forse, più banalmente, queste
disposizioni resteranno lettera morta?
Ancora. A Positano sono vietati i fuochi
d’artificio in feste private, tutti i giorni tranne
il sabato dalle 20,30 alle 23,00, pena una multa
da 50 a 500 euro; ad Eboli multa sino a 500 euro
per le coppiette sorprese in luoghi appartati ed
in atteggiamenti teneri; in alcune località balneari
è vietato camminare per strada a torso nudo o
in bikini (multa da 50 a 1.000 euro); a Genova
e a Brescia non è possibile passeggiare nel centro
storico con una bottiglia o un lattina di bevande
alcoliche in mano e ancor meno assumere alcolici
in luogo pubblico (multa fino a 500 euro); sulla
spiaggia di Eraclea è vietato costruire castelli di
sabbia, mentre su quella di Auttas (Olbia) è
vietato fumare; a Trento non è possibile
fotografare i propri figli in piscina, mentre a
Roma non è possibile rovistare nei cassonetti
della spazzatura; infine il 3 agosto, un uomo che
per difendersi dal caldo si era straiato sull’erba,
all’ombra di un ippocastano e stava
tranquillamente leggendo un libro è stato multato
di 360 euro in base ad un’ordinanza sindacale
che vietava di adagiarsi sul prato (Battisti oggi
non potrebbe più cantare Emozioni: “… E
sdraiarsi felice sopra l’erba ad ascoltare un
sottile dispiacere”).
Che dire di tutto questo? In un Paese con una
criminalità invasiva come il nostro (qualcuno
legga ”Gomorra” o vada a vedere il film); in un
Paese in cui un’intera Giunta Regionale è stata
“decapitata” dalla Magistratura per gravi fatti
di corruzione; in un Paese in cui ogni giorno
muoiono 4 persone, vittime di incidenti sul
lavoro, era proprio necessario dare la stura
a così tanti e tali divieti, alcuni dei quali
veramente incomprensibili? E l’Italia,
grazie ai nuovi super-poteri dei Sindaci, è,
oggi, un Paese più sicuro? Il dubbio è lecito,
come pure è lecito sospettare che quella
intrapresa sia la nuova via al fiscalismo
locale: abolita l’ICI (ma qualcuno vuole
già reintrodurla!), i Comuni possono
finanziarsi con i soldi delle multe ai danni
dei malcapitati cittadini. Con il che il
cerchio si chiude: ancora una volta più
tasse per tutti. E pensare che mi ero
impegnato a non parlare di tasse!
Robin Hood
I NOMADI: ALLE RADICI DEL BEAT
di Paola Ria
I Nomadi sono il “complesso” musicale più longevo della canzone leggera italiana: 45 anni di successi, in questo battuti, di un solo anno,
dai Rolling Stones (la cui nascita risale al ‘62). L’11 agosto hanno tenuto un concerto nella nostra marina, molto apprezzato dalla foltissima
cornice di pubblico presente. A Beppe Carletti, leader storico del gruppo abbiamo chiesto un’intervista che gentilmente ci ha concesso.
Quest’anno festeggiate quarantacinque anni
di “matrimonio” con la musica. Siete stati la
colonna sonora di intere generazioni, e siete
sempre attuali, sempre nuovi eppure coerenti
con il vostro percorso. Cosa vi tiene ancora
insieme e vi fa trovare sempre nuovi stimoli?
Quello che ci tiene insieme è la voglia di andare
avanti, il nostro credere sempre in quello che
facciamo, essendo comunque consapevoli che
abbiamo fatto delle cose importanti. Il segreto è
divertirsi, e direi che noi ci riusciamo bene: se
no non riusciremmo mica ad andare avanti!
Negli anni sessanta vi fu un incredibile
proliferare di gruppi musicali (i c.d. complessi).
quali le ragioni di questo exploit e il vostro
gruppo come nacque? E Perché questo nome:
i “Nomadi”?
Negli anni sessanta ci fu l’esplosione dei Beatles,
dei Rolling Stones, che ha dato il via a tante
cose, ad una nuova stagione. Noi venivamo
dall’Emilia Romagna, che è sempre stata una
patria della musica: allora c’erano le orchestre
che avevano dieci, dodici elementi, poi pian
pianino si son ristrette a cinque, sei. Da noi c’era
la possibilità di vivere suonando, perché c’erano
i locali che ti permettevano di suonare anche tre
volte alla settimana, si poteva vivere di musica!
Non abbiamo mai cercato il successo, abbiamo
iniziato perchè ci piaceva suonare insieme,
divertirci; poi nel momento del boom dei
complessi noi c’eravamo, ci hanno sentito,
abbiam fatto il provino ed eccoci qua… sembra
una cosa da film, ma è andata veramente così!
Riguardo al nome, all’epoca c’era una mania di
scegliere dei nomi stranieri, e a me non andava
bene. Allora abbiamo scelto “Nomadi”, ma così,
senza sapere poi quello che poteva succedere.
Cos’è cambiato nella musica italiana dal ’63
ad oggi? Meglio il tempo delle balere, dei
quarantacinque giri e dei juke-box o di
internet e dell’i-pod?
Non voglio essere antico, però forse allora ci si
divertiva di più… Adesso c’è internet, so bene
che è utile, bellissimo per certi versi; però credo
che una volta chi suonava aveva più possibilità
di fare esperienza, le balere ti davano questa
possibilità: di confrontarti con generi diversi.
Un problema di oggi è il fatto che si scarica
gratis, e di conseguenza si investe poco nella
musica; internet in questo senso non ha fatto
delle gran belle cose. Questo è un problema che
non riguarda tanto noi, quanto piuttosto i giovani
che devono venire: noi abbiamo già avuto tanto,
e invece può darsi che tanti gruppi di giovani
non avranno la possibilità di crescere e di
affermarsi. Poi si sono i network, che danno una
bella mano: trasmettono solo i grandi successi,
quindi giovani pochissimi, soprattutto musicastraniera. È come se il vostro giornale scrivesse
solo notizie che vengono dall’estero! Ma io
voglio sapere quello che succede in Italia, poi
dopo anche il resto! In Francia è diverso: i
network devono trasmettere almeno il cinquanta,
il sessanta per cento di musica francese. È cosìche dovrebbe essere anche da noi! È giusto
ascoltare tutto però in primis bisogna valorizzare
la musica italiana. Sono un po’ polemico a questo
proposito.
Sicuramente voi amate tutte le vostre canzoni,
perché ognuna ha una storia dietro, un
significato. Ce n’è una a cui siete più legati,
magari perché rappresenta una tappa
importante del vostro percorso?
No, no, assolutamente… io le ho incise tutte, poi
ne ho scritte un bel po’, quindi è difficile per me
essere affezionato ad una canzone più che ad
un’altra. Poi dipende dallo stato d’animo della
giornata, a volte esegui più volentieri una
canzone, rispetto ad un’altra, ma non è una
preferenza.
Un ricordo di Augusto Daolio?
Un ricordo di Augusto… Ci ho vissuto trent’anni,
forse uno solo è un po’ poco! Ciò che lo
caratterizzava era sicuramente il fatto che si
divertiva tanto! Poi era un grande personaggio,
carismatico, e molto curioso di apprendere.
Quest’anno ricorrono i quarant’anni dal ’68,
una stagione per molti versi irripetibile. Alcune
vostre canzoni di quel periodo sono gli stilemi
musicali di una generazione. Cosa ricordate
di quell’anno e cosa pensate del ’68 quanto
alla politica, alla musica e al costume?
Si respirava un’aria particolare allora. In quel
periodo abbiam fatto “Come potete giudicare”,
“Noi non ci saremo”, “Dio è morto”, poi dopo
“Canzone per un’amica”…siamo stati forse un
po’ i precursori, grazie a Guccini; diciamo che
siamo stati gli esecutori delle idee di Francesco,
le abbiamo fatte nostre, le abbiamo sposate in
toto, sapendo benissimo che saremmo anche
andati incontro a delle censure. Noi per certi
versi eravamo un po’ privilegiati, eravamo su
un palco, e allora l’aria che si respirava nelle
strade, nelle università, era poco recepibile da
noi, eravamo un po’
fuori da quel clima.
Eppure una volta siamo
stati contestati anche noi:
proprio a Reggio Emilia,
nella nostra città, ci
fecero smettere di
suonare! Ricordo che
anche De Gregori fu
contestato, a Milano.
Erano momenti un po’
particolari, c’era chi viveva quel
periodo in un modo veramente
forte, chi voleva farsi sentire.
La stagione del sessantotto non
so quanti benefici può aver
portato… qualcosa di positivo
l’ha portata, ma ha portato anche
delle cose molto strane, che era
meglio se non succedevano. Gli
anni sessanta (a me piace
considerarli in toto) sono stati
comunque anni di grandi
rivoluzioni, di grandi idee;
generalmente ci si riferisce al
’68 perché ha lasciato un bel
segno, però non ci si può limitare
a quell’anno, perché fu proprio tutto quel periodo
che era gravido di cambiamenti. Dalla fine degli
anni cinquanta fino alla metà degli anni sessanta,
e forse un po’ di più, c’era un gran bella voglia
di vivere, di fare. Ritornando al discorso della
musica, si suonava nelle balere, la gente andava
a ballare, si voleva divertire, voleva stare insieme.
Poi, col tempo, è cambiato tutto…
E l’Italia di oggi com’è?
È un po’ triste! Io non sono mica un indovino,
lo vedono tutti che è triste. È un momento un
po’ particolare, non solo in Italia, ma nel mondo
in generale: adesso è appena scoppiata un’altra
guerra (Russia-Georgia, guerra fredda), oggi far
la guerra è come sputare per terra! Il petrolio la
fa sempre da padrone, e noi siamo schiavi di
questa realtà. Io comunque sono sempre fiducioso
nella vita, sono convinto che le cose andranno
sempre per il meglio, perché quando si tocca il
fondo, dopo si può solo risalire… io vedo la mia
storia personale con i Nomadi, abbiamo
attraversato momenti difficili e siamo risaliti. Mi
auguro che sia così anche per l’Italia, e
sicuramente sarà così. Perché ora siamo arrivati
in fondo, nella musica e in generale nella società.
Voi siete molto impegnati in iniziative di
solidarietà in giro per il mondo, penso alla
Cambogia, al Vietnam, al Perù. Quali progetti
state seguendo attualmente?
Ora seguiamo il Madagascar, ci son stato due
anni fa e ci ritorno quest’anno in ottobre.
Credo che noi siamo dei privilegiati nella vita,
rispetto a tante persone: il fatto stesso che vivo
di una passione già è una fortuna incredibile!
Poi mi posso permettere anche di viaggiare, e in
quel senso non sono di peso a nessuno, e allora
seguo delle iniziative umanitarie, mi pago i miei
viaggi; facciamo quel che possiamo. In
Madagarscar abbiamo adottato già sessantasei
bambini; puntavamo a cento, non ci arriveremo,
però prendiamo quello che viene, è già un bel
po’!
Cosa si aspettano i Nomadi per il futuro e
cosa ci riservano? C'è qualche progetto in
cantiere?
A fine settembre finisce il nostro tour, poi ci
metteremo a lavorare e nell’anno prossimo, a
primavera un po’ tarda dovrebbe uscire un nuovo
lavoro. L’ultimo era una raccolta delle nostre
canzoni del passato e del presente, con
un’orchestra sinfonica, il prossimo sarà solo di
inediti. Per il futuro più lontano, speriamo di
andare sempre avanti, di divertirci ancora
insieme... puntiamo alle nozze d'oro!
L’AGONIA DELLO SPORT TAVIANESE
Chiusa l’esperienza del volley di A2 e del calcio, arretrano i settori giovanili,
ma cresce il numero di chi pratica sport.
Inizia una nuova stagione sportiva e per gli appassionati tavianesi si
profilano lunghe domeniche davanti agli schermi TV.
Il volley nazionale, quello della Salento d’Amare - Stilcasa Volley, che
portava i colori della nostra città in giro per l’Italia e portava un po’ della
penisola a casa nostra non c’è più. Come non ci sono più i tanti atleti,
giocatori dell’ex Unione Sovietica, del Venezuela, del Brasile, degli Stati
Uniti, della Germania, della Spagna, che venivano a vivere qui a Taviano
non solo un’esperienza professionale, ma anche e soprattutto umana.
Pallavolisti che oggi, rivedendoli in tv, ci danno la dimensione di ciò che
a Taviano abbiamo vissuto e - diciamocelo francamente - di ciò che i
soliti “soloni del giudizio” non hanno compreso e apprezzato perché forse
troppo “salottieri” e poco “sanguigni”. Purtroppo, in merito alla cessione
del titolo sportivo della 1° squadra, non sono bastate le rassicurazioni e
il sostegno degli Enti Locali (Comune e Provincia) per convincere iPresidenti Donato e Walter Bruno a non desistere. È mancato, come accade
spesso nel meridione d’Italia, il sostegno appassionato e generoso di tutte
le forze vive della città, imprenditoriali e non. L’intraprendenza degli
amanti della pallavolo, tuttavia, continuerà a regalarci “piccole” emozioni:
La squadra di pallavolo under 13, vincitrice del campionato di categoria
Un gruppo di tifosi del “Taviano Volley” in trasferta a Pisa
sempre suscita, in tutti gli sportivi, l’interesse che meriterebbe. Una realtà
che si sta affermando è l’associazione Atletica 97, riflesso di un semprecrescente numero di coloro che praticano la corsa. È amaro pensare che
a Taviano da ormai un decennio si sia conclusa l’esperienza tennistica,
che specie negli anni ’80 e ’90 ha visto accostarsi a questo sport un gran
numero di Tavianesi, con la nascita, inoltre, di diverse scuole tennis.
Qualcuno oggi ha ripiegato sul ping-pong preferendo indossare, per
problemi superabili, casacche di colore diverso dal giallo rosso.
Da questa breve e forse sommaria indagine emerge una forte crisi dello
sport agonistico ed è spiacevole constatare che a Taviano l’attività sportiva
venga praticata solo ed esclusivamente nell’interesse individualista della
forma fisica e non come scopo sociale-pedagogico e, perché no, proiettato
in una dimensione professionistica.
È quanto mai opportuno che specie la Civica Amministrazione, e in
particolare l’Assessorato allo Sport, investa con una forte e incisiva azione
nelle politiche sportive, non limitandosi a svolgere il semplice compitino
che rientra nella sfera delle sue competenze.
Ai settori giovanili, poiché su questi bisogna puntare e da qui ripartire,
bisogna dare l’opportunità di fare un salto di qualità, investendo su tecnici
di alto livello che affianchino chi svolge oggi egregiamente l’attività di
avviamento allo sport per ragazzi. Bisogna compiere lo sforzo di uscire
dal provincialismo che ci fa raggiungere ottimi risultati nelle fasce di età
adolescenziali, ma che poi non si concretizza con la piena realizzazione
di questi giovani talenti emergenti.
Una città che offre strutture e spazi qualitativamente e quantitativamente
superiori alle altre realtà limitrofe (pista di atletica, campi sportivi,
1999/2000 - La squadra di 3^ Categoria del Circolo Amici dello Sport, composta quasi totalmente da giocatori tavianesi, provenienti dal settore giovanile
continua infatti l’avventura della squadra di 1° divisione e chissà che i
ragazzi non riescano a darci quelle soddisfazioni cui da tredici anni
eravamo abituati.
Il campo sportivo San Giuseppe anche quest’anno non vedrà il campionato
di calcio e sembrano racconti lontani nel tempo, ma non nel cuore, quelli
che i “nostalgici” protagonisti del calcio tavianese di ieri continuano a
fare, specie davanti al “glorioso” Circolo Amici dello Sport. Una storia
che dalle notizie forniteci e dalla documentazione fotografica sembra
risalire al 1928 e che è sempre stata caratterizzata da un forte entusiasmo
ed interesse. Paradossalmente, di contro, a Taviano il numero di palestre,
(circa una decina, escluse le scuole di ballo) con una utenza di circa 1.500
persone, è sintomatico di quanto cresca costantemente il numero di chi
pratica sport. In alcuni casi si sono raggiunti ottimi risultati come nel
karate, anche se questa disciplina, non rientrando in quelle olimpiche, non
palazzetto dello sport, pallone tensostatico, palestre pubbliche e private,
a breve piscina, etc) non può non riuscire a occuparli di valide e qualificanti
iniziative sportive.
La tradizione dei giochi della gioventù, in cui si sono cimentate intere
generazioni di ragazzi, tra l’ammirazione e il sostegno dei coetanei e dei
cittadini che assistevano alle gare, ha rappresentato una festa dello sport
non solo per la scuola media, ma per l’intera città: oggi è ormai uno
sbiadito ricordo ed è forse anche per questo che tra i ragazzi non cresce
più la voglia di confrontarsi in una stimolante e sana competizione sportiva
(che è prodromo della più dura competizione della vita).
Sembra ormai avvicinarsi, nella nostra comunità cittadina, sempre più
inesorabilmente e tristemente la notte dello sport.
Attendiamo fiduciosi l’aurora di una nuova alba.
Lorenzo Corchia
FROM HELL
La sinistra storia di Jack lo squartatore
Quella che segue è unastoria terrificante. È la storia
di uno dei più terribili
incubi nei quali si siano
svegliati i cittadini
londinesi. Una storia che
ancora oggi, a 120 anni di
distanza, suscita orrore,
discussione, dibattiti. E la
storia del mostro di
Whitechapel, comparso sul
finire del 1888 ed autore di
cinque efferati delitti ancorasenza risposta. È la storia
del serial killer più famoso
di tutti i tempi: Jack lo
squartatore.
A dispetto della nutrita
concorrenza di serial killer
di cui purtroppo oggi
disponiamo, come lo
strangolatore di Boston, il
macellaio pazzo di Cleveland, il mostro di
Charleroi o il nostrano mostro di Firenze, la
figura di Jack “the ripper” (lo squartatore,
questo il nome che l’anonimo criminale si
diede e che utilizzò la stampa) continua a
suscitare fascino. Per diversi motivi: per il
fatto che luogo di tali efferatezze sia stata la
tetra e fuligginosa Londra di fine ‘800, capitale
di un impero che sembrava invincibile; per il
fatto che numerosi sospetti sui delitti compiuti
da Jack siano caduti sulla famiglia reale e, da
ultimo, per il fatto che questi sia stato il primo
serial killer a sfondo sessuale dell’era moderna.
Cinque, infatti, sono state le sue vittime, tutte
prostitute e tutte eliminate nello stesso modo,
nella stessa zona di Londra, il quartiere di
Whitechapel, nell’East End londinese, il posto
più malfamato della capitale nel quale si
aggiravano barboni, ubriaconi, prostitute; un
ghetto, uno squallido tugurio formato da case
vecchie e cadenti e da strette e maleodoranti
vie. Questo era il regno dello squartatore!
Le prime due vittime furono Mary Ann
Nichols, 42 anni, e Annie Chapman, assassinate
rispettivamente le notti del 31 agosto e del 7
settembre 1888. Vennero entrambe trovate con
la gola tagliata di netto, sventrate e con l’utero
asportato. La precisione dei colpi e la
conoscenza del corpo umano fecero pensare
che l’autore dei delitti potesse avere conoscenze
mediche. Del resto diversi testimoni avevano
visto le vittime parlottare, prima di essere
assassinate, con un uomo alto, distinto,
elegantemente vestito: descrizione che rimanda
ad una persona altolocata, come poteva essere
un medico dell’epoca.
La terza e la quarta vittima
si chiamavano Liz Stride e
Catherine Edwood, uccise
entrambe nella notte del 30
settembre, la prima solo con
la gola tagliata (forse perché
lo squartatore fu interrotto
da testimoni indiscreti),
l’altra mutilata come le
prime due. Questi orrendi
delitti all’epoca ebbero una
grandissima eco.
Oggigiorno, quando ci
imbattiamo in casi così
cruenti quasi non ci
facciamo più caso, ma nella
benestante e puritana
Londra Vittoriana
l’impressione che
suscitarono fu enorme. Il
terrore pervase la città, la
gente aveva paura ad uscire
per strada, nessuno si sentiva più al sicuro data
anche l’incapacità di Scotland Yard di trovare
il colpevole. Sembrava che un demonio fosse
uscito dalle tenebre per poi, dopo ogni delitto,
dissolversi nel nulla. Non solo, ma alla Centrale
di Polizia cominciarono ad arrivare
periodicamente lettere di sfida dello squartatore,
il cui indirizzo di provenienza era From Hell,
dall’inferno.
L’ultimo delitto fece saltare i quadri dirigenziali
della Polizia. Venne commesso il 9 novembre
e fu il vero capolavoro dello squartatore. La
vittima Mary Kelly, detta la rossa, venne
completamente fatta a pezzi in un piccolo
appartamento di Whitechapel.
Dopo quest’ultima uccisione i delitti
improvvisamente cessarono e Jack scomparve
per sempre (quanto di meglio potesse chiedere
Scotland Yard), inghiottito dalle tenebre da
cui era giunto.
Chi era Jack lo squartatore? Qual era il suo
vero volto? Cosa lo spingeva a commettere
tali brutalità, in quel posto ed a quel modo?
Numerosi sono stati gli studi e le indagini
compiuti nel corso degli anni.
All’epoca dei delitti si riteneva che lo
squartatore potesse essere un ebreo (antichi
retaggi xenofobi?) dato che sulla scena di uno
dei delitti venne trovata una scritta col gesso
che diceva: “I giudei non sono uomini da
biasimare per nulla”. Ma niente di più
probabile che si trattasse di un depistaggio.
Negli anni i riflettori sono stati puntati su un
certo Walter Sickert, uno stravagante e folle
pittore londinese, dai più ritenuto incapace di
simili atrocità. Montagne John Druit fu un
altro dei sospettati, un avvocato fallito e poi
impazzito che si trovava molto spesso a
Whitechapel e venne avvistato in prossimità
dei delitti, trovato morto nelle acque del Tamigi
un mese dopo l’ultimo omicidio (la qual cosa
spiegherebbe l’improvvisa fine dei delitti
seriali). Addirittura si è pensato che Jack
potesse essere una “lei”, una prostituta in cerca
di vendette contro sue colleghe per qualchetorto subito. È indubbio, però, che la teoria più
affascinante è quella del possibile “complotto
reale”, oggetto anche di un fumetto e di un
film di successo con Johnny Deep. Sospettato
dei delitti è stato il Principe Alberto, nipote
della Regina Vittoria, erede al Trono e morto
di sifilide contratta a causa delle sue
frequentazioni con tale Annie Crook, una
prostituta di Whitechapel. Il Principe, furioso
per la malattia contratta (che lo avrebbe, poi,
portato a morte) avrebbe voluto vendicarsi
infierendo sulla “causa” di quella malattia.
Tale tesi, tuttavia, non sta in piedi, dal momento
che il principe non aveva cognizioni mediche
(e ciò mal si concilia con la precisione delle
escissioni procurate alle vittime) e, proprio a
causa di quella patologia, non aveva forza
sufficiente per commettere quei tremendi delitti.
Molto più plausibile, invece, è un’altra tesi. Il
Principe Alberto avrebbe sposato (con rito
cattolico) Annie Crook, da cui avrebbe anche
avuto una figlia tenuta segreta, che, a tutti gli
effetti, era erede al Trono britannico. Testimoni
del battesimo della piccola sarebbero state le
cinque vittime dello squartatore, intime amiche
di Annie. Appreso ciò, la Regina ed il Governo
avrebbero preso di petto la situazione
rinchiudendo in manicomio Annie (dato certo)
ed ordinando al medico di Corte (sir William
Gull) di eliminare lo scomode testimoni di un
evento che rischiava di mandare in frantumi
l’Impero (ciò spiegherebbe le modalità dei
delitti e la precisione chirurgica dei colpi inferti
alle vittime). Probabilmente in questa storia
entra in gioco anche la Massoneria, dato che
Gull ne era un affiliato (come metà dei membri
del Governo). Sui luoghi dei delitti, infatti,
l’ispettore incaricato delle indagini, Frederick
Abberline, rinvenne diversi indizi che
lasciavano pensare a rituali massonici. Secondo
alcuni, tale tesi, per quanto la più plausibile,
sarebbe troppo fantasiosa.
Ancora oggi le indagini continuano. Sono
passati 120 anni da quei terribili eventi e Jack
the Ripper ancora non ha un volto:
probabilmente resterà sconosciuto per sempre
ed il mistero continuerà ad avvolgere nel suo
alone le morti tragiche di quelle povere donne
di strada.
Agente Fox M.
ROBERT JOHNSON, I BLUES BROTHERS, LA PIZZICA SALENTINA E…
Mi è capitato di recente di ascoltare la versione
originale del famoso pezzo dei Blues Brothers,
“Chicago”, eseguita agli inizi del Novecento con
una semplice chitarra da Robert Johnson, che ne
è l’autore. Affermo senza indugi che l’ho trovata
del tutto scialba e priva di attrattive, se paragonata
alla vivacità, alla potenza espressiva ed evocativa
del brano reinterpretato da John Belushi e Dan
Aykroyd. Mi sono chiesto, fra le tante domande
che un’estate oziosa porta con sé, che tipo di
operazione è stata compiuta rispetto alla canzone
originale. Sarebbe semplicistico argomentare
che l’una era accompagnata da un solo strumento,
mentre l’altra ha potuto avvalersi di un
arrangiamento in cui sono entrati in gioco chitarra
e basso elettrico, batteria, tromba, sassofono,
trombone e pianoforte. Lo dico pensando ad un
pezzo di Lightnin’ Hopkins, “Black Cat”,
anch’esso accompagnato da un’unica chitarra,
che ti fa alzare pericolosamente la pressione
sanguigna anche dopo un singolo ascolto.
Evidentemente c’è dell’altro. Se escludiamo la
tecnica vocale di Johnson, che è ineccepibile, e
il suo modo di accompagnare il blues,
perfettamente in linea con gli standard dell’epoca,
e se consideriamo, inoltre, che
non ha paragoni
un’intensità che
un autore tende a
trasmettere la sua
musica con
rispetto a
quella di
qualsiasi altro
interprete, qui
il rebus
rischia di
rimanere tale.
Dobbiamo,
The Blues Brothers
allora,
eisteinianamente spostare la nostra attenzione
sul fattore “tempo”, non inteso, però, come tempo
musicale, bensì in un’accezione quasi geologica,
come continua stratificazione e sedimentazione
di stili, generi, ritmi, contaminazioni, influenze,
sonorità. Per fare un esempio, un cantante italiano
contemporaneo non si esprimerebbe mai con lo
stile di Natalino Otto, per il fatto che nel suo
DNA, consapevolmente o inconsapevolmente,
sono ormai presenti Elvis Presley oppure Adriano
Celentano, Joe Cocker o Fausto Leali. Un gruppo
rock che inizi a suonare oggi forse non conosce
i Beatles che di nome, ma ci sono molte
probabilità che tenda naturalmente a schierare
batteria, basso e chitarre come base irrinunciabile
per qualsiasi esperimento musicale, esattamente
come fecero loro.
Per concludere questa prima parte del
ragionamento, la versione di “Chicago” dei Blues
Brothers risulta così accattivante per noi perché
filtrata attraverso l’esaltante esperienza del
Rhythm & Blues degli anni Sessanta, perché i
fiati sono “segnati” dalle trombe di Wilson
Pickett, dai sax di Otis Redding, perché la batteria
echeggia lo stile Motown. In quanto fruitori,
anche noi siamo pavlovianamente condizionati
nel tempo a riconoscere e apprezzare opere che
siano in linea con quanto ci ha gratificato in
passato.
Poi mi è venuto spontaneo collegare la mia tiepida
reazione all’ascolto della versione originale di
Johnson con l’atteggiamento di sufficienza o
addirittura di fastidio di molti amici, musicisti e
non, rispetto alla pizzica salentina. Perché anche
qui abbiamo, in fondo, chitarre acustiche,
tamburelli e pochi altri strumenti rigorosamente
unplugged, un sound volutamente “povero”, voci
semplici e lineari. Capisco che questo insieme
possa sembrare out rispetto all’universo sonoro
che si è andato costituendo a partire dalla
rivoluzione musicale della seconda metà del
Novecento. Sarebbe come se il compianto John
Belushi, nella famosa scena del film “Blues
Brothers”, si fosse presentato sul palco
accompagnato da un’unica chitarra acustica e
dall’armonica sfiatata di Dan Aykroyd. Facile
immaginare la reazione dei diecimila spettatori
assatanati dalla lunga attesa nella Sala Grande
del Palace Hotel: lo avrebbero sbranato. E
dunque, la conclusione è una sola: la musica
tradizionale locale va riformata, e gli attori di
questa operazione non possono che essere gli
stessi musicisti salentini che oggi la considerano
con diffidenza.
Mi permetto di lanciare questo appello dalla
colonne de “La Voce” perché considero la
questione estremamente urgente. Mi si dice che
ormai nelle balere dell’Emilia Romagna la pizzica
sta letteralmente spopolando; i festival della
“taranta” si moltiplicano in territori del tutto
estranei alla cultura salentina; artisti di altre
regioni cominciano a introdurre nel loro repertorio
i migliori brani della nostra tradizione. Bene.
Però tutto questo sa di moda effimera e rischia
di durare l’éspace d’un matin. È un’operazione
che subiamo, invece di averne il controllo. Per
evitare ciò, occorre radicare la nostra produzione
popolare all’interno di una trama musicale
efficace, attraente e soprattutto appetibile da
parte di un pubblico vasto ed eterogeneo. Occorre
sfornare pezzi di musica locale moderna in gradodi scalare le classifiche. È impossibile prevedere
che caratteristiche avrà il nuovo genere, ma di
certo esso sarà come i nostri musicisti sapranno
concepirlo. Per evitare mere petizioni di principio,
faccio una proposta concreta: mi piacerebbe che
un’associazione culturalmente impegnata, ad
esempio la “Bachelet”, lanciasse una sfida ai
musicisti salentini, ad esempio attraverso un
concorso, invitandoli a reinterpretare una canzone
tradizionale in chiave contemporanea.
Coraggio. Le rivoluzioni possono anche iniziare
da un cambiamento nella direzione del vento…
Carlo Longo
L’UBRIACO NON CANTA PIÙ: UCCIDE!
Ma dove sono gli ubriachi di una volta? Ricordo
vivamente la figura solitaria, tra comica e
patetica, che incontravi certe sere per strada.
Malmesso, la barba lunga, poteva chiederti,
farfugliando, un fiammifero per la cicca stretta
fra le labbra. Oppure lo vedevi mentre si
appoggiava a un muro per sfuggire al maligno
dondolo della Terra, lo sentivi distillare un filo
di allegria da rauchi brandelli di canzone.
Qualcuno, come ispirato, parlava alle stelle,
aspettando caparbiamente la risposta. Persone
inoffensive, tartassate dalla vita e ingannate
dal vinaccio ingerito in una bettola (ce n’erano,
a Taviano, in via Matteotti). Emarginati, cari
ai poeti come se custodissero il segreto di una
illusoria libertà.
Altri tempi, oggi tengono campo altri ubriachi.
Non sono vecchi relitti, ma uomini maturi che
hanno una famiglia o un lavoro, giovani e
giovanissimi che escono in compagnia dalle
discoteche dopo essersi storditi, senza apparente
necessità, col rumore di una musica assordante
e con intrugli alcolici alternati alla droga. Di
condizione non miserevole e spesso agiata,
possiedono auto con le quali, grazie
all’ebbrezza aggiunta della velocità, si
avventano sulle strade a seminare morte.
Predisposti, in quanto ubriachi, a diventare
potenziali suicidi ed assassini.
Il bilancio delle vittime, in ogni fine-settimana
o festa comandata, è terrificante (a mero titolo
d’esempio si ricordi l’incidente occorso in
agosto nei pressi di Nardò, in cui perirono sette
giovani). E, come capita davanti ai fenomeni
di novità dirompente, le reazioni tendono ad
appiattirsi sulla deprecazione o il lamento; le
autorità si mostrano impreparate e restie ad
assumere efficaci provvedimenti. Che senso
ha la semplice sospensione della patente per
un uomo sorpreso al volante fradicio di alcool,
che dopo il “condono” tornerà ad ubriacarsi e,
una volta o l’altra, ad uccidere? Giusta l’idea
di tipizzare una specifica ipotesi, più grave, di
omicidio colposo, ma bisognerebbe ricorrere,
nei casi più gravi di ebbrezza, al
ritiro definitivo del permesso di
guidare. Imparino - sanzione
severa, ma adeguata - a
servirsi del mezzi pubblici
e ad andare a piedi! In
fondo è anche l’eccessiva
salvaguardia dell’uomo
motorizzato, che tradisce
una feticistica passione per
l’automobile, a dimostrare quanto sia malata
la nostra società.
Che differenza fra ieri e oggi! È il caso di
chiedersi: si stava meglio trenta-quarant’anni
fa, o si stava peggio? La società attuale - mi
rincresce dirlo - è angustiata da un malcelato
senso di insoddisfazione ed assoluta carenza
di valori.
Di chi la colpa? Ai posteri l’ardua sentenza!
Donato Tanisi
TURISMO: PARLIAMONE ADESSO!
Ed ora?
L’estate 2008 sta per abbandonarci ed i dati
relativi agli arrivi ed alle presenze turistiche
(depurati da interpretazioni interessate) ci
consegnano un verdetto unanime: la peggiore
stagione turistica da decenni a questa parte!
L’incertezza economica ha spinto gli Italiani a
contenere i costi delle vacanze: il periodo di
soggiorno medio si è ridotto drasticamente con
concentrazione nei fine settimana e la percentuale
di chi ha dovuto rinunciarvi completamente è
salita, in un anno, dal 34 al 49%. A questo
dobbiamo aggiungere il dato considerevole di
quanti hanno preferito altre destinazioni rispetto
al Salento nonostante i notevolissimi sforzi di
promozione compiuti fino ad oggi.
Ed ora?
È una domanda che dobbiamo porci
immediatamente tutti (operatori turistici,
amministratori pubblici, esperti e semplici
cittadini) senza indugio e senza lasciar passare
del tempo prezioso per le decisioni da prendere
e per i provvedimenti da adottare.
Parlarne tra qualche mese, alle porte della
prossima stagione turistica, sarebbe tardivo ed
inutile con il rischio di non avere più il tempo
di individuare soluzioni adeguate o di attuarle.
La crisi economica che stiamo attraversando è
la causa più evidente di questa situazione, ma
non può e non deve servire da alibi per eludere
una seria e ragionata discussione su altre cause
che vengono da lontano e che, da tempo, sono
conosciute.
Volendo iniziare da un contesto nazionale balza
subito evidente la mancanza di attenzione politica
per un settore che dovrebbe essere trainante per
la nostra economia (testimoniata dall’abolizione
del Ministero per il Turismo e dal cronico non
funzionamento dell’ENIT) e che ci ha fatto
perdere terreno nei confronti di competitori diretti
quali Spagna, Francia, Croazia e Grecia solo per
rimanere in ambito europeo. Pensiamo, per
esempio, alla mancanza di una qualunque forma
di coordinamento nazionale a livello di
promozione turistica e pensiamo alla differenza
di aliquote iva che ci vedono penalizzati nei
confronti di Francia e Spagna.
Se passiamo, poi, ad un livello regionale e locale,
sul quale possiamo influire con maggiore
immediatezza, gli argomenti di riflessione sono
numerosi e chiamano in causa direttamente la
classe imprenditoriale alla quale appartengo, i
pubblici amministratori ed una consistente fascia
di cittadinanza che non ha ancora acquisito la
convinzione della insostituibilità del comparto
turistico come fonte di
reddito diretto ed indiretto
per l’economia del nostro
territorio.
Per quanto riguarda gli
imprenditori è necessario,
innanzitutto, puntare ad un
offerta di qualità qualunque
sia il target di clientela a cui
ci si rivolge, in secondo
luogo contribuire a
sviluppare nelle aziende
turistiche quella cultura
dell’accoglienza e
dell’ospitalità già propria dei
Salentini ed infine, ma non
per ultimo, convincersi definitivamente che solo
ragionando ed operando in termini di sistema-
territorio e non più di singole imprese si possono
sostenere e vincere le sfide di un mercato globale.
Per quanto riguarda, invece, la pubblica
amministrazione, efficiente nella promozione
del territorio, stupisce la mancanza di
determinazione nell’affrontare i problemi
fondamentali dei trasporti e della pulizia delle
spiagge e, persino, di alcuni paesi. Problemi,
questi, che hanno un’influenza notevole nella
scelta del luogo “ideale” dove trascorrere le
vacanze da parte dei turisti. Sono sempre più rari
e difficoltosi i collegamenti tra le principali città
nazionali ed europee e l’aereoporto di Brindisi
o la stazione di Lecce; sono al limite della non
fruibilità i collegamenti tra l’aereoporto di
Brindisi o la stazione di Lecce e le principali
località turistiche salentine; sono, infine,
inesistenti le possibilità di spostarsi sul territorio
per chiunque non sia dotato di un auto propria.
Le spiagge non gestite da privati sono
praticamente infrequentabili per la mancanza di
un servizio di pulizia e di un servizio salvataggio.
Alcuni paesi sono un esempio di quanto possa
non funzionare il servizio di raccolta dei rifiuti
e di pulizia delle strade.
Al contrario, è stata evidente la determinazione
con cui sono stati adottati dei regolamenti e delle
leggi con cui rendere sempre più difficoltosa se
non impossibile la gestione di un’attività turistica
da parte di privati. Leggi e regolamenti che
sembrano nascere da una pregiudizievole
convinzione che chiunque operi in questo settore
miri a conseguire ingiustificati guadagni e
rappresenti un attentato alla salvaguardia
dell’ambiente ed in generale dei diritti dei
cittadini.
Per quanto riguarda, infine, quella parte di
cittadinanza ancora poco o niente convinta di
quanto fondamentale possa essere il comparto
turistico per la crescita della nostra economia e,
quindi, della nostra ricchezza, occorrerebbe aprire
una riflessione su quali potrebbero mai essere i
settori produttivi in condizione di sostituire quello
turistico in termini di produzione di reddito diretto
ed indiretto e su quali potrebbero essere le
conseguenze per il territorio e per noi tutti se
venisse gradualmente a mancare, nel nostro,
Salento il flusso di denaro che il turismo porta.
Questa riflessione aiuterebbe, forse, a valutare
differentemente l’arrivo e la presenza dei turisti,
il lavoro di chi opera in questo settore e l’operato
delle pubbliche amministrazioni in questo campo.
Ed ora?
Parliamone adesso o rischiamo di perdere tempo
prezioso e di sprecare opportunità forse irripetibili.
Vincenzo Portaccio
Verdini, per chi non lo conosca, è un
deputato del PDL che tanta parte ha avuto
nella composizione della compaginegovernativa. È sua la formula che ha
permesso di distribuire le postazioni
governative in base ai rapporti di forza tra
i partiti confluiti nel PDL e tra questi e la
Lega. Un lavoro ben fatto, a sentir gli elogi
che gli sono piovuti addosso. Anche se,
bisogna dirlo, un pò avrà pure copiato.
Prima di lui, con gli stessi compiti, c’è stato
il mitico Massimiliano Cencelli che, nell’era
della Balena bianca, con i suoi algoritmi,
permetteva di conferire le cariche pubbliche
in base al peso delle correnti che
articolavano il partito (il celebre manuale
Cencelli).
Bene, l’on. Verdini, nel corso di
un’intervista, alla domanda del giornalista
che gli chiedeva quando sarebbe stato
rimosso il macigno del conflitto d’interesse
in capo a Berlusconi, rispondeva
soavemente: “Non credo che il conflitto di
interesse sia un problema per gli Italiani.
E se aumentiamo di cento Euro la loro
busta paga se ne scorderanno
completamente.”
Credo che abbia ragione: una fotografia
più nitida e sincera di noi Italiani è difficile
ottenere. L’espressione di Verdini ritrae al
meglio l’insignificanza di un popolo privo
di senso civico, pronto a ingoiare qualsiasi
amarume per qualche euro in più. Un
popolo con un passato discutibile e un
futuro improbabile: se gli togli la partita
di pallone, il telefonino, la televisione e la
macchina lo condanni all’infelicità eterna.
Gli anticipi in questa vita la sorte che gli
tocca nell’altra. I superficiali, gli ignavi,
i fanfaroni, i menefreghisti li ritrovi
ovunque, in tutti i paesi del mondo, ma non
nella concentrazione presente da noi. La
loro influenza è tale che, oramai, in Italia,
la democrazia è solo un fatto numerico, un
semplice conteggio dei voti.
Ci autoproclamiamo i più furbi del mondo
(tutto un filone di barzellette, “Ci sono un
inglese, un tedesco e un italiano”, è lì a
testimoniarlo); in quanto a conoscenza non
abbiamo rivali (“Il più fesso conosce sette
lingue”); ci sbrodiamo di mille vanterie in
ogni campo; e allora come mai stiamo così
male?
STUPIDO BLUFF
RETROMARCIA
di Alfonso Mele
LA COMPRAVENDITA IMMOBILIARE
La realtà sociale del Salento, nel campo delle
compravendite immobiliari, è ancorata alla
storica figura del “sensale di piazza”, che
svolge principalmente il ruolo di acquisizione
di un bene altrui per poi rivenderlo almaggiore offerente. È, in sostanza, un lavoro
di intermediazione sempre di parte, non
paragonabile all’attività svolta dall’agente
immobiliare serio, che invece si limita a
curare la mediazione tra le parti.
Ancora oggi in molti, convinti di essere in
buone mani, ma in realtà rischiando i propri
averi, si rivolgono al “sensale”, figura non
legalizzata, presente solo nel meridione
d’Italia.
D’altro canto è risaputo che il “sensale” non
sempre è iscritto all’albo degli agenti
immobiliari, anzi spesso svolge un’altra
attività lavorativa, violando così le
disposizione della l. 30/1989. Il “sensale”,
mai esposto in prima persona, promettendo
benefici, incassa importi in nero, a discapito
del malcapitato e dei cittadini onesti che sono
in regola col fisco. La trattativa è priva di
qualsiasi regola di trasparenza, allo scopo,
spesso, di nascondere la realtà alle parti e
magari approfittare delle difficoltà economiche
altrui.
A volte, invece che al “sensale” ci si rivolge
ad “amici” di famiglia, o conoscenti, che (mossi
da intenzioni non sempre disinteressate) si
improvvisano procuratori d’affari, con
conseguenze spesso disastrose.
È necessario allora, per evitare di incappare
in “spiacevoli inconvenienti”, affidarsi ad
un professionista di riconosciuta serietà,
iscritto all’albo degli agenti immobiliari.
Un serio agente immobiliare media la
trattativa tra la parte venditrice e la parte
acquirente nella compravendita immobiliare
agendo sempre con trasparenza; conosce
bene il mercato e la sua evoluzione, quindi
attribuisce agli immobili il giusto valore,
senza mai illudere la parte venditrice solo
per acquisire l’incarico; consiglia, promuove
e cura sempre gli interressi di entrambi i
contraenti, senza mai essere di parte;
percepisce un onere di mediazione del 2 %
+ IVA, ed emette sempre una regolare fattura
a conclusione della trattativa.
Sicuramente non è facile migliorare la
situazione nel campo delle compravendite
immobiliari, ma conoscere queste
informazioni può servire a prestare maggiore
attenzione nella cura dei propri affari.
Americo Parlati
SAGRE, CHE PASSIONE (!)
L’estate sta finendo, e con essa finisce anche un fenomeno della bella stagione salentina:
le sagre.
In questi ultimi mesi abbiamo assistito ad una spettacolare gara al rialzo nelle invenzioni
gastronomiche spacciate per prodotti tipici: con un crescendo da fare invidia al Bolero di
Ravel, si è passati dai banalissimi paparussi rrustuti alle più ricercate purpette te purpu,
sino ad arrivare, addirittura, alla trippa ccu lu sucu, talmente esclusiva da contare circa 3
estimatori in tutta l’area del Grande Salento.
Esaurita tutta la serie degli ortaggi e delle paste fatte in casa, per differenziare la propria
sagra da quella organizzata la sera prima a 2 kilometri di distanza, in una marina dell’Arco
Ionico si è proposta la sagra della fonduta valdostana, servita da avvenenti fanciulle vestite
da montanare che cantavano Heidi con lo splendido sfondo di un tramonto sul mare. Immediata
è arrivata la risposta della Pro-Loco di un comune limitrofo che ha lanciato una spettacolare
sagra della polenta concia con gli osei, tra cori di alpini avvinazzati e bandiere del Sud
Tirolo.
Un gruppo di turisti olandesi ha inscenato una manifestazione di protesta davanti al Municipio
per non aver ottenuto il patrocinio per la sagra dell’erba (pare che al sindaco la proposta era
sembrata troppo fumosa).
Godibilissima è stata, poi, la serie di sagre dedicate alla pitta di patate, che ha visto contrapporsi
decine di iniziative che differivano solo per il nome dell’autrice della ricetta: ta ‘Nzina, ta
zi’ Uccia, ta nonna Martina, ta cummare Gina, ta mamma Pippi, e così via; ci sono stati
anche momenti di tensione per i tafferugli scoppiati tra i clan familiari a sostegno della ricetta
della propria massaia di riferimento.
Qualcuno ha avuto il colpo di genio di dare una veste storico-culturale alla sagra del proprio
quartiere, denominandola sagra dei sapori di ieri; subito, a raffica, sono partite la sagra dei
sapori dell’altro ieri, quella dei sapori di una volta, quella dei sapori antichi, quella dei
sapori antichissimi; per poco non si è arrivati alla sagra dei sapori preistorici con braciole
di dinosauro e polpette di mammuth.
Un capitolo a parte meriterebbero i gruppi musicali chiamati ad animare le serate che, dietro
nomi incomprensibili (il “griko” è d’obbligo),
nascondevano due tamburellisti minorenni ed un
chitarrista esperto solo nel “giro di DO”, ma capaci
di fracassare i timpani (e non solo quelli) a tutti i
villeggianti nell’arco di 50 kilometri.
Tutto questo bailamme di odori e suoni (o di puzze
e rumori, fate voi) ha indotto alcuni residenti di
una marina sullo Ionio ad organizzare la sagra del
digiuno e del silenzio: nel luogo prescelto, all’ora
stabilita, non c’era musica, non c’era niente da
mangiare e non c’era anima viva. Secondo gli
organizzatori, anche essi rigorosamente assenti, è
stato un successone; secondo la Pro-Loco, un flop
memorabile. Questione di punti di vista.
Stefano Ria
“Ci stasira u tiempu è beddhu
ne truvamu, amici e amiche,
ssutta u Conte, allu caseddhu,
ppe lla sagra te le fiche”.
U mumentu ormai è bbanutu
ccu me fazzu nna cultura,
finche mmoi aggiu canusciutu
sulu a Fica ta Signura.
Nc’è nn’amicu meu furese
ca me tice te trent’anni:
“E nu ssai a Massafrese
o a Carpignana San Giuvanni”.
Sentu tire puru a’ngiru
ca nc’è tantu te ‘mparare:
ci stasira ccappa a tiru
oiu mparu e Culummare.
O sino’ nnu Frecazzanu,
quiddhu Russu o quiddhu Iancu,
ci me vene ssutta manu
ccu llu ssaggiu nun ci mancu.
E nc’è puru a Fica Inglese:
m’annu tittu amici mei,
ca la provi e ppe nnu mese
vai ticennu sempre “Occhei!”
Me piacìa ccu trou nna scusa,
topu ssaggiu una te quiste,
ccu prou puru nna Pilusa
o nna Ianca te Caddhiste.
Nu mme pare invece u casu
ccu prou quiddha Fecondata,
percè certu nn’addhu nasu,
ieu me pensu, l’ha ‘ndurata.
Nc’è u Culummu e llu Bbruficu
ca su cchini te sorprese:
ccu ddhi nomi… ma, oiu ddicu…
… ssia me trou alle stritte prese!
Meju a Fica ta Pumpea,
o te l’Alba, o quiddha Ottata,
ca problemi nu tte crea
egg’è dduce e zzuccarata.
Mo’ ccu ppenzu alla poisia
m’aggiu persu intra nna ruddha,
ci nu ttrou te capu a via
nu nne ssaggiu propriu nuddha.
Anzi a sorta mia, maligna,
ca me crepa a tutta forza,
face ttrou nna Ficaligna,
e pper giunta ccu lla scorza.
A SAGRA TE FICHE
Hanno collaborato alla realizzazione di questo numero:
Don Salvatore Barone, Marinella Cacciatore, Elisa Calzolaro, Giuseppe Cassini, Margherita Coppola, Lorenzo Corchia, Dante
Coronese, don Albino De Marco, Marzia Lezzi, Maurizio Lezzi, Carlo Longo, Laura Lupo, Nello Martina, Alfonso Mele, Americo
Parlati, Luigi Portaccio, Vincenzo Portaccio, Paola Ria, Stefano Ria, Germano Santacroce, Roberto Tanisi, Donato Tanisi, Gino
Trianni, Leonardo Tunno, don Fernando Vitali ed inoltre... Agent Fox M., Robin Hood, Trilli
La Redazione ringrazia gli inserzionisti che hanno reso possibile l’uscita di questo numero
e il Dott. Enzo Benisi per la sensibilità dimostrata.
il solito giornaletto filo amministrazione comunale.
anche se scrivete di jack lo squartatore o di sindaci sceriffi o di turismo siete sempre voi!
e l'attacco all'assessore d'argento nell'articolo di corchia?
patetici.
e ridicoli!
Chiarimento: quali sono articoli e quali commenti? Grazie. Zeus
solo gli ultimi due sono commenti, i primi 30 sono articoli del giornale.
Grazie del chiarimento Hawkeye, li leggerò attentamnete e valuterò. Zeus
Da un rapido sguardo (specifico non lettura attenta, almeno per il momento), il giornale mi pare ricco di contenuti, certo migliorabile, e comunque assolutamente non filo governativo...!Anzi!Certo lo stesso andrebbe valutato anche giudicandolo sulla grafica, impaginazione, scelta di immagini, ecc, ma purtoppo qui sul blog non è possibile.
Saluti e complimenti per il blog.
Zeus
Ho letto l'editoriale ed è un chiaro attacco alle politiche nazionali, Ho letto della manifestazione Chloris e c'è una stoccata all'assessore , ho letto del Palazzo de Franchis e ne vengono riconosciuti i meriti a tutti, ivi compreso Tanisi, ho letto l'articolo sullo sport e vi è un attacco alle politiche sportive di questa maggioranza, ho letto la rubrica sulla stagione estiva e si da più spazio alla minoranza con un consigliere d'opposizione e uno candidato nella lista Tanisi.
Il fanatismo in certa gente ne offusca la mente ...e li rende ridicoli...
Non è stata fatica sprecata
(come in tanti dicono!) la mia...
almeno una persona ha letto!
Mi basta.
ho potuto leggere gli articoli de "la voce" e sono rimasta colpita positivamente perchè:
- a taviano ci sono tante Associazioni, molte delle quali pseudo-culturali (che nascondono chiare finalità di altro genere...) ed è positivo che l'Associazione Bachelet faccia promozione culturale anche attraverso un periodico che non si limita alla cronaca spicciola, finalizzata al chiacchiericcio e alla polemica da marciapiede, ma che si presenta ricco di idee e contenuti, condivisibili o meno, ma counque apprezzabili;
- la pagina della memoria civile, oltre che per la firma autorevole, è un approfondimento che, specie tra i giovani, andrebbe coltivato;
- "uno sguardo indietro è una pagina originale, che porta alla ribalta quella che è la storia fatta da grandi e piccoli uomini e di grandi e piccoli avvenimenti, meritevoli di essere ricordati;
- bella l'idea del forum: apre un confronto sereno e libero (cosa che si propone anche questo blog, grazie all'impegno del gestore); i pr5otagonisti mi sembrano ben scelti, e rappresentativi del tessuto sociale della città;
alla redazione de "la voce" chiedo di continuare su questa strada e di arricchire il giornale con idee sempre nuove e originali.
una critica: un pò in tutti i numeri non si fa riferimento ai problemi ambientali, della città e non.
istrice
Posta un commento